Un ritorno al passato come se nulla fosse. Nel segno della continuità con il Governo Berlusconi, quello Monti ha concluso un accordo con la Libia, il 3 aprile, facendo finta di non vedere la realtà libica e considerando carta straccia le pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo e, in particolare, la sentenza della Grande Camera del 23 febbraio 2012 che ha condannato l’Italia (ricorso n. 27765/09, Hirsi Jamaa e altri) per aver violato l’articolo 3 della Convenzione dei diritti dell’uomo che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti e l’articolo 4 del Protocollo n. 4 che mette al bando le espulsioni collettive proprio a causa del respingimento di immigrati provenienti dalla Libia.
Dell’accordo di aprile non c’è traccia – nel segno della trasparenza – sui siti del governo, ma il quotidiano La Stampa ne ha divulgato un resoconto (http://www.lastampa.it/_web/tmplframe/default.asp?indirizzo=http://www.lastampa.it/_web/download/pdf/ruotolo.pdf). Centrale, nell’accordo firmato dal Ministro Cancellieri e da quello libico Abdubali, il monitoraggio dei confini, con un impegno della Libia a “rafforzare le proprie frontiere marittime e terrestri, al fine di contrastare le partenze dei migranti dal proprio territorio”. Fondamentale l’aiuto dell’Italia che s’impegna a fornire le attrezzature funzionali alla sorveglianza delle frontiere libiche. Inutile la clausola inserita nell’accordo in base alla quale l’Italia e la Libia confermano “l’impegno al rispetto dei diritti dell’uomo tutelati dagli accordi e dalle convenzioni internazionali vigenti”. Tanto più che la Libia non ha ratificato la Convenzione di Ginevra del 1951 e non offre, quindi, nessuna tutela ai richiedenti asilo. Sarebbe bastata una breve lettura della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a evitare la conclusione di un accordo che presenta un’aggravante rispetto al precedente alla luce del chiaro monito lanciato da Strasburgo. Proprio nella sentenza Hirsi, la Corte ha affermato che non sussisteva alcun dubbio che gli immigrati in Libia erano trattati in modo disumano, come confermato anche dal rapporto del Comitato sulla prevenzione della tortura. Senza dimenticare che la Libia procedeva senza esitazioni a far rientrare in Patria tutti gli immigrati anche coloro che avevano diritto all’asilo. Che l’Italia non dovesse concludere l’accordo è ancora più evidente leggendo la comunicazione al Comitato dei Ministri del 31 maggio sullo stato di attuazione della sentenza Hirsi nella quale il Governo ha chiesto informazioni alla Libia per verificare se i ricorrenti si trovino ancora nel centro di accoglienza di Tripoli. Chiara la risposta del direttore aggiunto del Dipartimento delle relazioni internazionali del ministero dell’interno libico, Samir Youssef, il quale ha ammesso di non essere in grado di fornire adeguate informazioni anche a causa del conflitto che è però ormai cessato da tempo.
Occhi chiusi, quindi, sulla situazione in Libia che, tra l’altro, mostra di agire al di fuori delle regole del diritto internazionale. Basti pensare ai funzionari della Corte penale internazionale detenuti a Tripoli dal 7 giugno all’esito di una visita per incontrare Saif Al-Ilam Gheddafi, il figlio dell’ex dittatore trucidato dagli insorti, come deciso della Pre-Trial Chamber della Corte penale il 27 aprile. Il Consiglio Nazionale Transitorio appoggiando la reclusione dei 4 funzionari della Corte ha anche ignorato che la competenza dell’organo giurisdizionale deriva da una risoluzione del Consiglio di sicurezza e che la Libia ha l’obbligo di cooperare con la Corte. Non certo un segno di rispetto del diritto internazionale sul quale però gli Stati chiudono gli occhi storditi dall’odore del petrolio.
Per alcune osservazioni critiche sull’accordo si veda lo studio di Amnesty International “S.O.S. Europe” (p. 8, SOS_Europe)
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