La Corte europea dei diritti dell’uomo, con sentenza depositata il 10 maggio 2012 (http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?item=2&portal=hbkm&action=html&highlight=75909/01&sessionid=96155746&skin=hudoc-en) ha stabilito l’entità del risarcimento per i danni materiali che l’Italia deve corrispondere alle tre imprese costruttrici dell’ecomostro “Punta Perotti” che per anni ha svettato a Bari fino alla sua distruzione nel 2006 (qui il video della demolizione, http://video.repubblica.it/copertina/bari-1031-giu-punta-perotti/2413?video). In precedenza, con la sentenza del 20 gennaio 2009 (n. 75909/01, Sud Fondi srl e altri contro Italia), la Corte europea, a seguito del ricorso delle tre imprese proprietarie dei terreni sui quali era sorta Punta Perotti, aveva accertato la violazione dell’articolo 7 della Convenzione europea (nessuna pena senza legge) e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 (diritto di proprietà), liquidando i danni morali (40mila euro per ogni ricorrente) e riservandosi di decidere su quelli materiali richiedendo degli accertamenti tecnici e auspicando un regolamento amichevole tra le parti. Che non c’è stato. La parola è così tornata a Strasburgo che ha fissato in 49milioni di euro i danni materiali che lo Stato deve risarcire alle imprese ricorrenti. I giudici internazionali hanno anche imposto allo Stato di astenersi dal chiedere ai ricorrenti il rimborso delle spese di demolizione degli edifici e di riqualificazione delle aree, di fatto bloccando le azioni avviate dal Comune di Bari nei confronti delle imprese. La Corte europea è partita dai principi di diritto internazionale in materia di riparazione fissati nella sentenza della Corte internazionale di giustizia relativa al caso delle officine di Chorzów e verificando, in primo luogo, la possibilità di ricorrere alla restitutio in integrum. In realtà, il ripristino dello status quo ante non era possibile: è vero che dopo la sentenza del 2009 le autorità nazionali hanno disposto la revoca della confisca dei terreni e ordinato la restituzione dei suoli alle imprese ricorrenti ma, senza dubbio, questa misura ha riparato il pregiudizio subito solo in modo parziale e, di conseguenza, le vittime della violazione hanno diritto a un’equa soddisfazione tanto più che esse non hanno più la possibilità di “recuperare gli edifici confiscati poiché sono stati demoliti”. La sola restituzione dei suoli disposta a seguito delle pronunce della Corte europea non è, quindi, una misura adeguata a ripristinare la situazione preesistente alle accertate violazioni della Convenzione: le imprese hanno sì recuperato le proprietà ma non hanno goduto dell’utilizzo dei suoli per lungo tempo. Necessario allora – osserva la Corte – quantificare i danni subiti dal momento in cui le parti non hanno più avuto la disponibilità dei suoli (ossia dal momento della confisca). Danni che devono in ogni caso essere riconducibili direttamente “alla doppia violazione constatata”: esclusi, invece, quelli che rientrano piuttosto nell’attività delle società ricorrenti e del rischio d’impresa” (come, ad esempio, le spese notarili sostenute per l’acquisto dei terreni). Pertanto, per la Corte europea è necessario tenere conto del probabile valore dei suoli all’inizio della situazione controversa, valutando la circostanza che i terreni erano edificabili. Per quanto riguarda il primo profilo (risarcimento dovuto all’indisponibilità dei suoli), la Corte europea ritiene che una giusta compensazione possa essere ottenuta versando una somma corrispondente all’interesse legale considerato per tutta la durata della confisca, calcolato e applicato sul controvalore dei terreni. I suoli sono ora un parco pubblico e questo potrebbe costituire un impedimento nel reintegro della proprietà. Tuttavia, poiché i proprietari non hanno sostenuto che sussiste un’impossibilità di ottenere dal Comune di Bari un permesso di chiudere quella zona – istanza non presentata dalle imprese – le ricorrenti non possono rivendicare un risarcimento per la perdita dei terreni, “ma unicamente una somma per il pregiudizio derivante dall’indisponibilità assoluta dei loro beni dal periodo in cui è stata disposta la confisca alla restituzione”, anche se la Corte ritiene di tenere conto dell’indisponibilità relativa e non assoluta dei terreni nella determinazione del risarcimento, che la conduce a liquidare un somma complessiva per riparare il danno materiale pari a 37milioni di euro per la Sud Fondi, 9.500.000 euro alla Mabar e 2.500.000 alla Iema. A ciò si aggiunga che, nell’eseguire la pronuncia le autorità nazionali devono anche astenersi da ulteriori pretese verso le società ricorrenti. Questo vuol dire che ai proprietari dei suoli non possono essere richieste né le spese dovute alla demolizione degli edifici, né i costi sostenuti dall’amministrazione per la riqualificazione dell’area e la trasformazione in parco. Pertanto, il Comune deve rinunciare all’azione giudiziaria dinanzi al Tribunale di Bari.
In ogni caso, seppure ingente, la somma liquidata dalla Corte europea non appare eccessiva rispetto alle istanze delle tre imprese che complessivamente avevano chiesto 330 milioni di euro. La discrepanza rispetto alle richieste è dovuta alla circostanza che la Corte ha liquidato unicamente i danni diretta conseguenza della confisca illegittima che ha impedito il godimento delle proprietà per oltre 10 anni, ma non il costo di costruzione degli edifici abbattuti.
A tal proposito, c’è un passaggio della pronuncia della Corte che dà adito a dubbi. La Corte riconosce che i costi sostenuti per la costruzione dei palazzi sono un elemento della restitutio in integrum (par. 56), ma non sembra quantificare l’importo per questi costi nell’indennizzo che è sostitutivo della restitutio, limitandosi infatti a indicare solo i criteri di quantificazione del valore dei suoli e non degli edifici abbattutti.
Resta quindi un dubbio intepretativo sull’affermazione resa al paragrafo 56 e sul seguito da dare, dubbio che potrebbe condurre a ulteriori controversie sulla corretta interpretazione della pronuncia riaprendo anche il fronte interno.
Si vedano i post del 4 marzo 2011, del 24 gennaio 2011 e del 17 novembre 2010.
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