Un detenuto nella base di Guantanamo, soggetto a tortura e a gravi violazioni dei diritti umani ha diritto a agire, in sede civile, per ottenere il risarcimento dei danni derivanti da illecito, dinanzi ai giudici inglesi. Via libera dalla Corte di appello, Civil Division ([2021]EWHC331, Guantanamo) all’azione di Abu Zubaydah, – nato in Arabia Saudita e catturato in Pakistan nel 2002, accusato di terrorismo e considerato tra i vertici di al-Qaeda, inghiottito nella prigione di Guantanamo – contro il Governo inglese a suo avviso responsabile delle misure prese dai membri dei servizi segreti britannici che avrebbero chiesto informazioni alla CIA, senza pretendere un’assicurazione che l’uomo non sarebbe stato torturato. In pratica, anche se l’intelligence britannica, con l’MI5 e l’MI6 non aveva partecipato alle torture, nel momento in cui aveva chiesto informazioni alla CIA senza alcuna garanzia, avrebbe coinvolto sotto il profilo della responsabilità le autorità inglesi. L’High Court aveva respinto l’azione di Abu Zubaydah che aveva chiesto un risarcimento per le torture subite, ma i giudici di appello hanno ribaltato il giudizio ammettendo la competenza dei giudici inglesi per gli stretti legami tra i fatti e il Regno Unito. La Corte ha rilevato che l’uomo non era mai stato formalmente accusato o processato (e, per di più, in un rapporto del Senato Usa era stato affermato che, ad avviso della CIA, l’uomo non era membro del gruppo terroristico) e, per 20 anni, era stato detenuto illegalmente, oltre ad essere stato vittima di extraordinary rendition con la complicità di sei Stati europei, nonché di waterboarding in almeno 83 occasioni. Per i giudici inglesi, nel caso in esame, è applicabile il Private International Law Act del 1995 che permette di individuare la legge relativa al caso di specie: riconosciuta la competenza dei giudici inglesi, la Corte di appello ha annullato la pronuncia di primo grado e ammesso l’appello, specificando che deve essere applicata la legge inglese.
Sulla vicenda di Abu Zubaydah era intervenuta anche la Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza di condanna alla Polonia resa il 24 luglio 2014.
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