Vietare l’utilizzo del niqab non è contrario alla CEDU

La tutela di determinati valori considerati rilevanti per una società giustifica il no al velo islamico in luoghi pubblici. Non solo, quindi, le esigenze di sicurezza nazionale, ma anche necessità legate alla convivenza in una determinata società, possono essere invocate da uno Stato per limitare l’esposizione di simboli religiosi che confliggono con quei valori. E’ la Corte europea dei diritti dell’uomo a tornare sulla questione del velo islamico con la sentenza Belcacemi e Oussar (AFFAIRE BELCACEMI ET OUSSAR c. BELGIQUE) depositata l’11 luglio (analoga a quella Dakir resa nella stessa data) con la quale la Corte ha dato torto alle ricorrenti ritenendo conforme alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo la normativa belga che fissa il divieto del niqab nei luoghi aperti al pubblico. Sono state due donne, una belga e una del Marocco, a contestare il divieto all’utilizzo, in luoghi pubblici, di indumenti che coprono il volto totalmente o parzialmente. A causa di questa proibizione, le donne non potevano utilizzare il niqab. La Corte costituzionale belga aveva respinto il ricorso e le donne hanno così scelto la strada di Strasburgo sostenendo che era stato violato il diritto al rispetto della vita privata (articolo 8), della libertà di religione (articolo 9) e il diritto a non essere discriminati (articolo 14). Di diverso avviso la Corte europea. Prima di tutto, la Corte ha tenuto a precisare che la legge belga del 2011, frutto di un percorso lungo 7 anni, indicava con chiarezza i divieti, giustificati da fini legittimi come la sicurezza pubblica, l’uguaglianza di genere e la tutela della convivenza all’interno di una società. In materia di libertà di religione, inoltre, gli Stati godono di un ampio margine di apprezzamento nel decidere eventuali limitazioni al diritto di manifestare un determinato credo e, certo, i giudici interni si trovano in una posizione migliore rispetto alla Corte per la valutazione dei bisogni di una determinata società. E’ vero – osserva Strasburgo – che una scelta legislativa come quella belga può contribuire a consolidare stereotipi che colpiscono determinate categorie di individui e incoraggiano espressioni di intolleranza, limitando per di più il pluralismo e creando ostacoli alle donne musulmane nell’espressione della propria personalità. Detto questo, però, anche tenendo conto che gli Stati parti alla Convenzione europea non hanno una posizione univoca nel senso di permettere o vietare il niqab, la Corte riconosce un ampio margine di apprezzamento agli Stati. I divieti fissati in Belgio, inoltre, sono da classificare tra le misure necessarie in una società democratica perché servono a favorire le relazioni tra i componenti di una società e ad agevolare certe condizioni di convivenza che lo Stato vuole per la propria comunità. La legge belga supera poi il vaglio della Corte anche perché le sanzioni sono proporzionali in quanto l’ordinamento prevede una multa, limitando il carcere solo in casi estremi, per ripetute violazioni e dopo un’attenta valutazione dei giudici nazionali. Di conseguenza, il no imposto per legge all’utilizzo del niqab non è contrario alla Convenzione dei diritti dell’uomo.

Si vedano i post http://www.marinacastellaneta.it/blog/il-datore-di-lavoro-puo-dire-no-al-velo-islamico-in-azienda.htmlhttp://www.marinacastellaneta.it/blog/divieto-di-velo-islamico-sdoganato-a-strasburgo.html

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