Da Lussemburgo limiti all’utilizzo di impianti di videosorveglianza della propria abitazione se, seppure di poco, riprendono immagini dalla strada pubblica. Questo perché, in questi casi, l’attività deve essere classificata come trattamento dati, con la conseguenza che va applicata la direttiva 95/46 relativa alla tutela delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione dei dati, recepita in Italia con Dlgs n. 196/2003 (“Codice in materia di protezione dei dati personali”). Lo ha chiarito la Corte di giustizia Ue nella sentenza depositata ieri (C-212/13,rynes), nel corso di un procedimento nel quale sono intervenuti 7 Stati, inclusa l’Italia. La vicenda ha preso avvio dall’installazione di un sistema di videosorveglianza da parte di un privato la cui abitazione, da anni, era oggetto di atti vandalici. Installata una telecamera, erano stati individuati gli autori che, però, avevano contestato la legalità delle registrazioni, poi acquisite dalla polizia. L’Ufficio per la tutela dei dati personali aveva dato ragione ai ricorrenti. Di qui il ricorso del proprietario del sistema, con la Corte suprema amministrativa della Repubblica Ceca che, prima di pronunciarsi, ha passato la questione interpretativa a Lussemburgo. Prima di tutto gli eurogiudici hanno chiarito che l’immagine di una persona registrata da una telecamera è un dato personale perché consente di individuare l’identità dell’interessato, con la conseguenza che è necessario il consenso. Detto questo, la Corte è passata a verificare se fosse possibile applicare l’eccezione prevista dall’articolo 3 della direttiva che esclude dal campo di applicazione dell’atto Ue i trattamenti di dati personali effettuati da una persona fisica “per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico”. Nel caso al centro della questione la videosorveglianza era stata sì decisa e installata da una persona fisica dinanzi alla propria abitazione privata ma, seppure di poco, le riprese della telecamera fissa si estendevano nello spazio pubblico. Una situazione che porta la Corte a concludere nel senso di non applicare l’eccezione prevista dalla direttiva. In questi casi, infatti, l’attività “è diretta verso l’esterno della sfera privata della persona che procede al trattamento dei dati” e non può essere classificata come un’attività esclusivamente personale o domestica. A ciò si aggiunga – osserva Lussemburgo – che l’eccezione deve essere interpretata in modo restrittivo per garantirne una lettura compatibile con l’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali Ue che tutela il diritto alla vita privata.
La Corte apre, però, la strada a una soluzione per tutelare la vittima di illeciti da parte di terzi. Secondo gli eurogiudici, infatti, il tribunale interno deve tenere conto,”eventualmente”, in linea con quanto previsto dall’articolo 7, lettera f) della direttiva, degli interessi legittimi del responsabile del trattamento come la tutela dei beni, della salute, della vita e della famiglia.
La sentenza inciderà anche sull’interpretazione del provvedimento dell’8 aprile 2010 adottato dal Garante italiano per la protezione dei dati personali proprio nell’ambito delle attività di videosorveglianza.
lemona
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