Non incorre in una discriminazione il datore di lavoro privato che vieta ai dipendenti il velo islamico e altri segni religiosi visibili. E’ l’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Kokott, a scriverlo nelle conclusioni depositate il 31 maggio (causa C-157/15, Achbita, C-157:15) con le quali, almeno in questa prima fase del procedimento, Lussemburgo rafforza il principio di neutralità religiosa e ideologica. E’ il primo caso di questo genere arrivato a Lussemburgo (pende anche un altro ricorso). E’ stata la Corte di Cassazione belga, alle prese con un ricorso di una dipendente di un’impresa che fornisce servizi di sicurezza e di vigilanza, licenziata perché si era rifiutata di lavorare priva del velo islamico, a chiamare in aiuto la Corte Ue. Secondo l’Avvocato generale, le cui conclusioni non sono vincolanti ma sono generalmente seguite dalla Corte, non è in contrasto con la direttiva 2000/78 sulla parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, recepita in Italia con Dlgs n. 216/2003, la decisione di un datore di lavoro privato di vietare, in via generale, l’esibizione di simboli religiosi (conclusione analoga a quella raggiunta, nel settore pubblico, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Ebrahimian contro Francia).
La direttiva – osserva Kokott – punta alla creazione di ambienti di lavoro non discriminatori, vietando in modo assoluto ogni atto di questo genere, ma ammettendo talune disparità di trattamento necessarie al perseguimento di un obiettivo legittimo e in presenza di alcuni requisiti. Come la finalità dell’azienda che punta a rafforzare la neutralità religiosa e ideologica. Passaggio obbligato, per raggiungere tale risultato, il no ai propri dipendenti che non possono indossare simboli religiosi, politici e filosofici sulla base di un regolamento interno codificato proprio per rafforzare l’attuazione effettiva dei principi perseguiti, primo tra tutti la neutralità in materia religiosa. Una finalità legittima e necessaria all’attuazione della politica aziendale che – osserva l’Avvocato generale – è anche proporzionale perché non procura un eccessivo pregiudizio sui legittimi interessi dei lavoratori ed è applicabile in maniera generale e del tutto indifferenziata tant’è che include anche il divieto di “indossare segni visibili di una convinzione politica o filosofica”. Se è vero che il divieto di mostrare simboli religiosi può costituire un’ingerenza nella liberà di religione garantita dall’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali, è anche vero che, se rivolta verso ogni simbolo visibile, non ha carattere discriminatorio. Tanto più che l’Avvocato generale tiene a specificare che si riferisce a simboli particolarmente visibili e non a segni di minore impatto come orecchini o altri oggetti che riproducono un simbolo religioso.
D’altra parte, un’azienda – osserva Kokott – “può optare per una rigorosa neutralità religiosa e ideologica” e, quindi, “esigere dai propri dipendenti, nell’ambito del proprio potere discrezionale imprenditoriale garantito dalla Carta Ue, quale requisito per lo svolgimento dell’attività lavorativa, un modo di presentarsi corrispondentemente neutrale sul luogo di lavoro”. Soprattutto per le attività in cui il lavoratore è a contatto con la clientela. Anche per evitare che la collettività abbia l’impressione che la convinzione religiosa o politica ostentata in pubblico dal dipendente sia imputabile all’azienda.
Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/divieto-di-velo-islamico-sdoganato-a-strasburgo.html
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