I giudici nazionali non possono adottare un approccio eccessivamente rigoroso nell’esaminare la condotta dei giornalisti nei procedimenti per diffamazione e non possono imporre sanzioni pecuniarie eccessive e sproporzionate rispetto alle entrate dei reporter. Non solo. I tribunali interni chiamati a valutare la condotta di un giornalista devono tener conto dell’impatto che la propria decisione potrebbe avere non solo nei confronti del singolo reporter, ma sui media in generale. E’ quanto stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza Kasabova e Bozhkov contro Bulgaria del 19 aprile (http://cmiskp.echr.coe.int/tkp197/view.asp?item=1&portal=hbkm&action=html&highlight=kasabova&sessionid=71019058&skin=hudoc-en) che segna un’ulteriore vittoria, targata Strasburgo, per la libertà di stampa. Alla Corte europea si erano rivolti due giornalisti dopo aver subito una condanna per diffamazione per aver scritto alcuni articoli sulle modalità di ammissione degli studenti in scuole secondarie speciali. Alcuni allievi erano riusciti ad entrare non sulla base del merito, ma solo per aver presentato dei certificati medici. I giornalisti avevano raccontato la vicenda e dato conto dei sospetti di corruzione che gravavano su alcuni ispettori del ministero. Questi avevano denunciato i giornalisti che erano stati condannati per diffamazione a una sanzione pecuniaria elevata, pari a 70 volte lo stipendio mensile minimo. Un giudizio del tutto ribaltato dalla Corte europea che non solo non ha condiviso le conclusioni del tribunale interno, ma ha inviato chiare direttive per i giudici nazionali alle prese con questioni riguardanti la libertà di stampa garantita dall’articolo 10 della Convenzione europea.
Prima di tutto, osserva la Corte di Strasburgo, la restrizione alla libertà di stampa può essere ammessa solo in presenza di un bisogno sociale imperativo. La condanna decisa sul piano interno aveva invece intaccato la possibilità per la stampa di svolgere il proprio ruolo ossia di fornire informazioni di pubblico interesse. Informare su presunti casi di corruzione – osserva la Corte – è di rilievo per l’intera collettività ed è “parte integrale del compito dei media in una società democratica”. Le vicende raccontate, poi, riguardavano pubblici ufficiali, soggetti a critiche più ampie. Nei procedimenti interni, soprattutto nei casi in cui la legislazione fissa l’onere della prova sul giornalista, va lasciato a quest’ultimo ampio margine di manovra. Se il cronista dimostra di aver agito “correttamente e in modo responsabile”, secondo gli standard della professione, non può essere punito. Né è compatibile con la Convenzione il ragionamento seguito dai giudici nazionali che condizionavano l’assoluzione dei giornalisti all’accertamento della colpevolezza degli ispettori. Una conclusione irragionevole – osserva Strasburgo – perché i giornalisti non possono certo condizionare la propria funzione all’esistenza di condanne penali e salvarsi dalla pena per diffamazione solo se i dati forniti nei propri articoli hanno conferma nelle aule giudiziarie. Inoltre, i giudici nazionali hanno deciso senza tener conto del “probabile impatto che avrebbe potuto avere la decisione non solo nel caso specifico, ma anche sui media in generale”. La Corte europea, poi, mette in guardia gli Stati: le sanzioni pecuniarie sproporzionate che possono avere un effetto deterrente sulla libertà di stampa comportano una pressoché automatica condanna da parte di Strasburgo.
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