Il Tribunale arbitrale per lo sport rispetta i requisiti di indipendenza richiesti dall’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. E’ la Corte europea a intervenire, con la sentenza Mutu e Pechstein contro Svizzera (ricorso n. 40575/10 e n. 67474/10, AFFAIRE MUTU ET PECHSTEIN c. SUISSE) depositata il 2 ottobre, sulla dibattuta questione dell’applicabilità delle regole convenzionali sull’equo processo ai procedimenti arbitrali.
I ricorsi a Strasburgo erano stati presentati da due atleti, un rumeno e una tedesca. Per quanto riguarda la prima vicenda, il ricorso era stato avviato da un calciatore che dalla squadra del Parma si era trasferito al Chelsea. A seguito di alcuni controlli antidoping, che avevano svelato tracce di cocaina, il club inglese aveva risolto il contratto: dopo aver lasciato il club, il calciatore era tornato a giocare in Italia. Tuttavia, il Chelsea aveva avviato un’azione contro il calciatore: la Commissione per la risoluzione delle controversie inglese, afferente alla FIFA, aveva dato torto al giocatore, condannandolo a versare al club 17 milioni di euro. Era seguito il procedimento dinanzi al Tribunale arbitrale per lo sport (TAS) con sede a Losanna (qui il sito internet http://www.tas-cas.org/en/index.html) che aveva confermato l’operato della Commissione. Di conseguenza, il calciatore si era rivolto al Tribunale federale svizzero chiedendo l’annullamento della sentenza in quanto il procedimento dinanzi al Tribunale arbitrale non aveva le caratteristiche dell’indipendenza e dell’imparzialità. Il ricorso era stato respinto. Di qui il ricorso a Strasburgo che, però, gli ha dato torto.
Prima di tutto, la Corte europea, ricostruito il funzionamento del Tribunale arbitrale per lo sport, ha ritenuto sussistente la competenza ratione personae della Convenzione in particolare perché le decisioni del tribunale arbitrale, che non è un organo statale, sono appellabili dinanzi agli organi giurisdizionali svizzeri. La Corte è poi passata ad analizzare le caratteristiche del Tribunale arbitrale per lo sport rispetto ad altri organi arbitrali sui quali la stessa Corte si è già pronunciata e ha rilevato che il calciatore, nel contratto, aveva firmato l’accettazione della competenza del Tribunale arbitrale, con la conseguenza che, come si desume anche da altri elementi analizzati dalla Corte europea, egli aveva rinunciato “senza possibilità di equivoci” a contestare l’indipendenza e l’imparzialità dello stesso Tribunale. La Corte ha confermato che il diritto di accesso alla giustizia non impedisce la costituzione di tribunali arbitrali chiamati a risolvere questioni di natura patrimoniale. Nel caso di specie, poi, il Tribunale arbitrale per lo sport pronuncia sentenze che risolvono le controversie secondo i modelli tipici delle giurisdizioni e, per di più, le decisioni sono impugnabili dinanzi al Tribunale federale svizzero che considera le sentenze rese dal TAS come provenienti da un tribunale statale costituito per legge. Anche con riguardo alla nomina del collegio arbitrale, il ricorrente non aveva dimostrato dinanzi ai giudici interni che un arbitro fosse legato all’avvocato del club del Chelsea. Così la Corte europea ha respinto il ricorso.
Per quanto riguarda l’azione dell’altra ricorrente, la conclusione di Strasburgo è stata diversa. Sportiva professionista nel settore del pattinaggio, la donna era stata sospesa a seguito dei controlli antidoping. Anche qui il provvedimento era stato impugnato dinanzi al TAS, con un procedimento che si era svolto a porte chiuse malgrado la richiesta di pubblicità della donna. Il Tribunale federale svizzero, poi, aveva respinto l’azione della sportiva, confermando la correttezza dell’operato dell’organo arbitrale. La Corte europea, sul punto, ha parzialmente accolto il ricorso perché la donna non aveva avuto alcuna scelta nell’accettazione della clausola arbitrale. Si era in presenza – osservano i giudici internazionali – di un arbitrato forzato e, quindi, l’articolo 6 della Convenzione deve essere applicato. Tuttavia, la Corte europea ha respinto il ricorso della donna nella parte in cui la sportiva sosteneva che l’obbligo di scegliere un arbitro unicamente da un elenco deciso dal Consiglio internazionale di arbitrato dello sport (CIAS) costituisse una violazione dei requisiti di indipendenza e imparzialità. Gli arbitri elencati – scrive la Corte – erano in numero elevato, circa 300 e, se è possibile che gli atleti subiscano una certa influenza nella scelta degli arbitri, ciò non inficia il requisito dell’indipendenza e dell’imparzialità. Violato invece articolo 6, paragrafo 1 per l’assenza di pubblicità e per la circostanza che la richiesta di un’udienza pubblica presentata dalla donna fosse stata respinta.
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