Il principio di irretroattività delle norme procedurali non impone che gli atti processuali, incluse le sentenze, siano tradotte nella lingua del condannato che non ne ha fatto richiesta se si tratta di atti processuali precedenti all’entrata in vigore del Dlgs 32/2014 che ha recepito la direttiva 2010/64/UE sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, V sezione penale con sentenza n. 26416/14 depositata il 18 giugno 2014 (traduzione). Alla Suprema Corte si era rivolto un cittadino rumeno condannato in primo e secondo grado il quale sosteneva che non aveva potuto ottenere la traduzione delle sentenze, il decreto di citazione in appello e l’estratto contumaciale della sentenza in appello nella sua lingua madre. In realtà, osserva la Cassazione, l’articolo 143 c.p.p. nel testo previgente all’entrata in vigore del Dlgs n. 32, come interpretato dai giudici nazionali, prevedeva l’assistenza di un interprete ma non imponeva l’obbligo di traduzione per gli atti finalizzati a dare impulso alla fase successiva, a meno che non vi fosse stata una richiesta dell’interessato. E’ vero che il quadro normativo è oggi cambiato grazie al recepimento della direttiva Ue, con la conseguenza che la traduzione di alcuni atti deve avvenire anche senza richiesta del condannato ma, la nuova disciplina non può essere applicata agli atti processuali precedenti alla sua entrata in vigore.
Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/recepita-in-ritardo-la-direttiva-ue-sulle-traduzioni-nei-procedimenti-penali.html
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