La libertà di critica di un giornalista è più ampia se l’articolo ha ad oggetto un uomo politico. Non solo. Un linguaggio che in linea generale può apparire offensivo non deve essere considerato tale se non ha lo scopo di insultare ma è utilizzato dal giornalista solo per motivi di stile. Di conseguenza, prima di condannare un giornalista per diffamazione, i giudici nazionali devono effettuare una valutazione dell’intero articolo tenendo conto degli interessi in gioco e del diritto dello stesso giornalista ad usare toni anche accesi nei confronti di un politico. E’ il principio stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nella sentenza depositata il 17 aprile (CASE OF MLADINA D.D. LJUBLJANA v. SLOVENIA) con la quale Strasburgo ha accertato la violazione dell’articolo 10 della Convenzione (che assicura il diritto alla libertà di espressione) della Slovenia. Questo perché le autorità giurisdizionali slovene avevano condannato per diffamazione un editore di un settimanale. Nel giornale era stato pubblicato un articolo che riportava il dibattito parlamentare sul riconoscimento legale delle unioni omosessuali. Nel corso del dibattito, un parlamentare aveva usato toni offensivi e denigratori nei confronti degli omosessuali e, di conseguenza, nell’articolo di cronaca, il giornalista aveva definito il suo comportamento simile a quello di un “deviato celebrale”. Di qui la condanna dell’editore sul piano nazionale. Una conclusione non condivisa dalla Corte europea che ha dato torto alla Slovenia. I giudici nazionali, infatti, devono attenersi ai parametri di Strasburgo e partire dal presupposto che i limiti alla critica sono più ampi se riguardano un politico. Inoltre, va considerato il contesto dell’articolo e la circostanza che la critica anche aspra non può essere considerata come un attacco personale e gratuito se legata a una specifica situazione. Tanto più che era stato lo stesso parlamentare a usare toni non solo vivaci ma anche zeppi di stereotipi negativi, ridicolizzando gli omosessuali. Nel caso di specie – osserva la Corte – lo stile utilizzato dal giornalista rispondeva al comportamento del parlamentare, ma non aveva l’obiettivo di insultare né costituiva un attacco personale gratuito. Si trattava – scrivono i giudici internazionali – di un giudizio di valore e non di fatto, consentito in quanto non aveva la finalità di offendere ma era frutto di una scelta stilistica. La Corte ha così condannato lo Stato in causa a versare la stessa cifra alla quale era stata condannata la casa editrice (2.921 euro) più 5.850 euro per le spese sostenute.
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