Le sanzioni penali stabilite nell’ordinamento nazionale per reati legati all’esercizio del diritto alla libertà di espressione hanno un chilling effect su coloro che intendono realizzare tale diritto, anche nei casi in cui sia prevista unicamente una sanzione pecuniaria e non detentiva. E’ il principio affermato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con la sentenza depositata il 9 marzo con la quale Strasburgo ha evidenziato gli effetti negativi a lungo termine di una misura penale, che permangono anche se la pena è di lieve entità (Benitez Moriana e Inigo Fernandez contro Spagna, ricorsi n. 36537/15 e n. 36539/15, sanzioni). A rivolgersi alla Corte sono stati due membri di un’associazione no profit che avevano pubblicato una lettera aperta su un giornale spagnolo, criticando l’operato di un giudice il quale aveva dato ragione a una società che operava nell’estrazione mineraria. La procura aveva aperto un’inchiesta e, al termine di un procedimento penale, i due attivisti erano stati condannati a pagare, per le gravi ingiurie commesse pubblicamente, 2.400 euro ciascuno (nonché 3mila euro per il danno non patrimoniale), più 2.758.80 euro per i costi di pubblicazione della sentenza sullo stesso quotidiano. La Corte europea ha riconosciuto che la limitazione era prevista dalla legge e serviva a tutelare il diritto alla reputazione, incluso nelle restrizioni fissate dal secondo comma dell’art. 10, che assicura la libertà di espressione. Strasburgo ha valutato la necessarietà della misura restrittiva della libertà di espressione in una società democratica, evidenziando che la misura limitativa deve essere funzionale ad assicurare la tutela di un bisogno sociale imperativo. A tal proposito, gli Stati godono di un certo margine di apprezzamento per valutare e bilanciare i diversi diritti in gioco e verificare se sussista il bisogno di una limitazione, ma ciò alla luce della giurisprudenza della Corte europea a cui spetta “l’ultima parola” sull’accertamento della compatibilità della restrizione con l’articolo 10 della Convenzione. L’ingerenza, quindi, deve essere “proporzionata rispetto al fine legittimo perseguito” e la lesione della reputazione deve raggiungere una certa serietà, tenendo conto che nei casi in cui sia coinvolto un magistrato va prestata una particolare attenzione al fatto che la collettività non deve perdere fiducia nell’amministrazione della giustizia e che vanno impediti attacchi “distruttivi”, anche perché i magistrati hanno un dovere di discrezione che impedisce loro di replicare alle dichiarazioni altrui. Nel caso in esame, la Corte ha precisato che le questioni inerenti al funzionamento della giustizia sono di interesse generale perché la collettività deve poter verificare che “i giudici adempiano alle loro alte responsabilità in modo conforme al fine costitutivo della missione che è loro affidata” e, di conseguenza, il margine di apprezzamento nel bilanciamento dei diritti in gioco si restringe a vantaggio della libertà di espressione, anche perché i magistrati, salvo nel caso di attacchi distruttivi, devono tollerare critiche in misura maggiore rispetto al privato cittadino. Inoltre, la lettera aperta conteneva giudizi di valore e non fatti e, quindi, il diritto alla libertà di espressione è ancora più ampio in presenza di una base fattuale sufficiente, oltre a dover essere assicurato anche alle opinioni che possono offendere o disturbare, nonché alla scelta stilistica, con la conseguenza che l’utilizzo di un linguaggio “caustico” in un commento sull’operato dei giudici va tutelato ai sensi dell’articolo 10 della Convenzione. Nell’effettuare l’accertamento sul giusto bilanciamento, va altresì presa in considerazione la severità e la natura della sanzione e, per la Corte, una misura penale, anche se lieve, ha inevitabilmente un “chilling effect” sull’esercizio della libertà di espressione, anche a causa dell’iscrizione della condanna nel casellario giudiziale. Pertanto, finanche il pagamento di una somma simbolica, prevista sul piano penale, non va considerato di lieve entità, proprio perché gli effetti di una condanna penale sono a lungo termine. Di qui, la violazione dell’articolo 10 della Convenzione.
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