L’accesso ai dati telefonici di una giornalista, deciso dalle autorità giudiziarie nazionali per individuare l’autore di un reato, è una sicura violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione, con particolare riguardo alla libertà di stampa. E’ la Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo, con la sentenza Sedletska contro Ucraina (ricorso n. 42634/18, CASE OF SEDLETSKA v. UKRAINE) depositata il 1° aprile, con la quale Strasburgo ha blindato le fonti giornalistiche da ingerenze delle autorità nazionali, compiendo un ulteriore rafforzamento della libertà di stampa essenziale non solo per permettere al giornalista l’esercizio della libertà di espressione, ma anche per consentire alla collettività di ottenere informazioni di interesse generale, fondamentali per la democrazia nel suo insieme. A Strasburgo si era rivolta una giornalista di “Radio Free Europe” con sede a Kiev che curava, dal 2014, un programma sulla corruzione. L’Autorità nazionale anticorruzione dell’Ucraina aveva avviato un procedimento nei confronti di un procuratore, anche intercettando le telefonate con la sua partner. Un sito web aveva pubblicato un articolo nel quale si sosteneva che il capo dell’Autorità anticorruzione aveva tenuto un incontro con alcuni giornalisti, svelando informazioni riservate sulle indagini e, probabilmente, permettendo ai rappresentanti dei media di ascoltare alcune registrazioni tra il procuratore e la sua compagna, che includevano questioni relative alla vita privata della coppia. Era stata avviata un’azione penale, anche a seguito della denuncia della donna. Gli inquirenti avevano chiesto l’autorizzazione, poi concessa per ben 16 mesi, alla corte distrettuale per accedere ai tabulati telefonici della giornalista ricorrente. Un articolo aveva dato conto delle numerose intercettazioni che coinvolgevano anche altri giornalisti e attivisti dei diritti umani ma, malgrado i ricorsi della cronista per bloccare le intercettazioni, queste erano state confermate, seppure limitate, in appello, a determinati luoghi e, quindi, alla sola geolocalizzazione. Di qui il ricorso alla Corte europea che, per la prima volta in materia di libertà di stampa, è anche intervenuta con misure provvisorie chiedendo al Governo ucraino di fermare le intercettazioni fino alla decisione sul merito. Con la sentenza del 1° aprile, Strasburgo ha dato ragione alla giornalista. La protezione delle fonti – osservano i giudici internazionali – è la chiave di volta della libertà di stampa perché, senza un’adeguata ed effettiva tutela, la stampa potrebbe astenersi dal divulgare notizie di interesse generale, compromettendo il ruolo di “cane da guardia” della società che è proprio dei giornalisti liberi. Sul punto, la giurisprudenza di Strasburgo è ormai consolidata a partire dal caso Goodwin: i giornalisti hanno il diritto di ricercare informazioni e di non svelare le fonti. Di conseguenza, esiste un obbligo internazionale degli Stati volto a garantire la tutela della segretezza delle fonti. Una protezione ad ampio raggio, inoltre, che riguarda anche le informazioni indirette e materiale in possesso dei giornalisti. Questo vuol dire che le autorità inquirenti non solo non possono chiedere al giornalista il nome della fonte, ma non possono neanche cercare di assumere indirettamente, con sequestro di materiale o intercettazioni, notizie per identificare le fonti. Nessun dubbio sull’ingerenza della libertà di stampa in un caso come quello in esame che, seppure prevista dalla legge e poi limitata alla geolocalizzazione, non era necessaria in una società democratica. E’ vero, infatti, che talune limitazioni possono essere ammesse per prevenire reati, ma non sacrificando la libertà di stampa. Il bilanciamento dei valori in gioco, infatti, non può portare a compromettere una libertà fondamentale per la democrazia. D’altra parte, per la Corte, la protezione delle fonti non è un privilegio da concedere o rimuovere a seconda che si tratti di fonti lecite o illecite, ma è un diritto da trattare con “la massima cautela”. Poco importa, poi, se le autorità nazionali che eseguono i provvedimenti giudiziari per la ricerca delle fonti, non arrivino a individuare la fonte perché, la sola adozione di un provvedimento che mina la segretezza delle fonti, costituisce una violazione della libertà di stampa. E questo soprattutto nei casi come quello in esame in cui le autorità inquirenti hanno accesso su larga scala al materiale del giornalista. Pertanto, per Strasburgo, le autorizzazioni alle intercettazioni del telefono della giornalista e l’acquisizione dei tabulati telefonici è stata gravemente lesiva della libertà di stampa e altamente sproporzionata. L’obiettivo di individuare l’autore di un reato (in questo caso relativo alla fuga di notizie) non è stato considerato dalla Corte come un bisogno sociale imperativo e le diverse misure non sono state classificate come necessarie in una società democratica. Bocciata anche la misura più limitata alla geolocalizzazione per individuare se la giornalista avesse partecipato alla riunione con il Presidente dell’Autorità anticorruzione. La Corte europea, oltre ad accertare la violazione dell’articolo 10, ha condannato lo Stato in causa a pagare 4.500 euro per i danni non patrimoniali subiti dalla giornalista e 2.350 euro per le spese processuali.
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