Scoppola atto IV: nuova condanna all’Italia per la detenzione di malati in strutture carcerarie

La detenzione per un periodo prolungato di una persona in età avanzata e per di più malata è in contrasto con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Lo ha affermato la Corte di Strasburgo che ha condannato l’Italia  con sentenza depositata il 17 luglio, relativa al caso Scoppola (AFFAIRE SCOPPOLA c ITALIE N 4), per violazione dell’articolo 3 della Convenzione che vieta i trattamenti disumani e degradanti. Per la Corte, infatti,  anche se lo Stato non ha intenzione di umiliare un detenuto malato, agisce in conflitto con la Convenzione se costringe il detenuto affetto da una grave patologia a vivere in una struttura carceraria che è incompatibile con il suo stato di salute.

La vicenda approdata alla Corte europea riguarda il caso Scoppola (n. 4) che è già costata all’Italia altre condanne. L’uomo, dopo un litigio familiare, aveva ucciso la moglie e ferito uno dei figli. Era stato condannato all’ergastolo e detenuto a Regina Coeli. Tuttavia, poiché soffriva di diverse patologie cardiache, di diabete, di depressione e di una malattia muscolare era stato posto agli arresti domiciliari e poi, avendo violato le regole, trasferito nel carcere di Parma che disponeva delle strutture adatte a una persona con gravi problemi di deambulazione. La Corte, già nel 2008, aveva ritenuto che l’Italia avesse violato la Convenzione costringendolo alla detenzione a Regina Coeli. Anche il trasferimento nel carcere di Parma ha spinto il detenuto a ricorrere a Strasburgo che ha nuovamente accolto il ricorso chiarendo il rapporto tra esigenze di sicurezza e di amministrazione della giustizia e tutela della salute dei detenuti.

E’ vero – osserva la Corte europea – che lo Stato non ha un obbligo generale di rimettere in libertà o di trasferire in un ospedale civile ogni detenuto malato ma, in virtù dell’articolo 3 della Convenzione, le autorità nazionali devono accertare la situazione alla luce di tre condizioni individuate dalla Corte. Prima di tutto, va presa in considerazione lo stato del detenuto inclusa la sua età (il ricorrente aveva 72 anni), in secondo luogo la qualità delle cure dispensate in carcere e in terzo luogo l’opportunità di mantenere la detenzione in considerazione del suo stato di salute. Una verifica che – osserva la Corte –va fatta nel caso concreto. Lo Stato, infatti, in base alla Convenzione ha un obbligo positivo e, quindi, deve mettere in atto tutte le misure necessarie non solo per evitare trattamenti degradanti, ma anche per tutelare lo stato di salute del detenuto, agendo per di più in modo rapido. Nel caso all’attenzione della Corte, il ricorrente era stato costretto a vivere in uno stato di angoscia costante. Di qui non solo la condanna per violazione dell’articolo 3, ma anche l’obbligo per lo Stato di versare un indennizzo per i danni non patrimoniali subiti (oltre 9mila ero) e per le spese processuali sostenute dal ricorrente (6mila euro).

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