Ruolo dei social media nel genocidio dei Rohingya: vittoria del Gambia dinanzi ai giudici Usa

Per Facebook, l’inizio è promettente, ma la conclusione segna una svolta nella tradizionale protezione della riservatezza delle comunicazioni e nella posizione del potere di gestione dei contenuti da parte dei social media. Con l’ordinanza del 22 settembre 2021, nel caso Repubblica del Gambia contro Facebook, N. 20-mc-36-JEB-ZMF (Gambia Facebook), il giudice Zia M. Faruqui, della Corte distrettuale della Columbia, ha accolto la richiesta dello Stato africano che voleva avere accesso ai post cancellati da Facebook relativi al genocidio dei Rohingya in Myanmar e ha ordinato alla società internet di consegnare il materiale richiesto dal Gambia. A rivolgersi ai giudici statunitensi, è stata la Repubblica del Gambia che ha chiesto al giudice di ordinare a Facebook la trasmissione degli account dai quali sono partiti messaggi e post che potrebbero avere avuto un ruolo nel genocidio dei Rohingya in Myanmar. Lo Stored Communication Act proibisce la consegna di email private ma – come sottolineato dal giudice Faruqui – si tratta di una legge risalente al 1986, non certo adeguata alla situazione attuale. I social media, infatti, non erano diffusi e, quindi, non si era posta la questione della moderazione dei contenuti. Oggi sono chiari i rischi derivanti dalla disinformazione che ha causato danni catastrofici, spingendo i providers ad assumersi una responsabilità de facto nella moderazione dei contenuti (si veda p. 13 dell’ordinanza). Chiarito che, ammettere che a seguito della cancellazione del profilo il social media sarebbe tenuto a consegnare ogni comunicazione archiviata, comprometterebbe seriamente la libertà di espressione, la Corte procede a distinguere tra la protezione del backup dalla memorizzazione post trasmissione, bocciando la tesi di Facebook che ha dato rilievo al luogo in cui sono registrate le memorizzazioni (nel backup). Diversa la posizione della Corte distrettuale secondo la quale non è rilevante il luogo in cui vengono memorizzate, ma perché vengono memorizzate, tenendo conto del fatto che i post non sono equiparabili a comunicazioni private. Facebook – scrive il giudice Usa – avanza rischi sulla privacy perché ogni fornitore di servizi che disattiva un account di un utente sarebbe tenuto a diffondere le sue conversazioni, ma questo, ad avviso della Corte, suscita ironia perché Facebook non ha mostrato una particolare attenzione alla privacy. Inoltre, nel caso in esame le implicazioni per la privacy sono limitate considerato il numero ristretto di categorie di contenuti divulgabili, senza dimenticare che alcuni post contro i Rohingya continuano ad essere diffusi sul web e che la richiesta del Gambia è funzionale unicamente per la controversia dinanzi alla Corte internazionale di giustizia (CIG Gambia). Facebook ha già fatto il primo passo rimuovendo i messaggi e collaborando con le Nazioni Unite alle quali ha già consegnato alcuni documenti e ora, per la Corte distrettuale, deve andare avanti condividendo i contenuti necessari a combattere l’hate speech.

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