Non c’è rischio di dumping sociale che tenga di fronte al pericolo di compromettere la libera prestazione dei servizi. In una sentenza depositata il 18 settembre (causa C-549/13, subappalti), la Corte di giustizia dell’Unione europea ha affermato che il diritto alla libera prestazione dei servizi sbarra la strada a una normativa interna in materia di appalti che imponga l’applicazione di un salario minimo ai dipendenti di un subappaltatore stabilito in un altro Paese Ue rispetto all’amministrazione aggiudicatrice. Al centro della questione, una controversia tra il Comune di Dortmund (Germania) e un’azienda. L’amministrazione aveva imposto in un capitolato su un appalto pubblico di servizi di garantire ai lavoratori dei subappaltatori degli offerenti una retribuzione minima fissata nel Land tedesco. E questo anche nei casi in cui il subappaltatore si trovasse in un altro Stato membro e le prestazioni fossero fornite in quest’ultimo Stato. I giudici tedeschi hanno sospeso il procedimento nazionale e hanno chiesto chiarimenti sulla normativa Ue alla Corte di giustizia. Prima di tutto, gli eurogiudici hanno escluso la possibilità di applicare la direttiva 96/71 perché l’azienda offerente non intendeva avvalersi del distacco dei lavoratori del suo subappaltatore (una società polacca) in Germania. Il caso di specie riguarda invece il diritto di utilizzare un subappaltatore, con sede in un altro Stato membro, diverso dalla Germania, che impiega manodopera del proprio Paese e svolga il lavoro nello Stato di appartenenza dell’impresa. In gioco, in questo caso viene la direttiva 2004/18 e l’articolo 56 del Trattato di Lisbona che assicura la libera prestazione dei servizi. E’ evidente – osserva la Corte – che se fosse possibile imporre al subappaltatore con sede in un altro Stato membro, che abitualmente ha costi minimi salariali inferiori, la tariffa fissata sulla base della legislazione tedesca, si ostacolerebbe la partecipazione della ditta ai lavori in subappalto. Questo vuol dire che la legislazione tedesca che impone il salario minimo, se applicata obbligatoriamente anche alla ditta di un altro Stato membro che svolge la prestazione fuori dal territorio tedesco, è in contrasto con l’articolo 56 del Trattato costituendo una restrizione alla libera prestazione dei servizi. Una simile situazione – prosegue la Corte – “costituisce un onere economico supplementare, atto ad impedire, ostacolare o rendere meno attraenti” le prestazioni nello Stato membro ospitante. Tanto più che l’importo salariale fissato non ha alcun rapporto con il costo della vita nello Stato membro in cui le prestazioni oggetto del subappalto saranno svolte. Con un danno per i subappaltatori stabiliti in Polonia che non potrebbero trarre “un vantaggio concorrenziale dalle differenze esistenti tra le rispettive tariffe salariali”.
Detto questo, Lussemburgo riconosce che una misura nazionale come quella oggetto della causa persegue un obiettivo legittimo, ossia la protezione dei lavoratori, garantendo che sia versata una congrua retribuzione funzionale a impedire il dumping sociale e una penalizzazione delle imprese concorrenti “che concedono una congrua retribuzione ai dipendenti”, ma la misura non può essere giustificata se applicabile ai soli appalti pubblici. Questo vuol dire che la misura, per raggiungere l’obiettivo perseguito, dovrebbe essere imposta in ogni situazione, anche “verso i lavoratori attivi sul mercato privato” che dovrebbero avere la stessa protezione salariale dei lavoratori che operano nell’ambito di appalti pubblici. Così non è e quindi la misura è sproporzionata
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