I giudici italiani possono adottare provvedimenti in favore di minori nati e residenti in Italia, affidati alla madre di nazionalità italiana. Non sussiste, infatti, alcun difetto di giurisdizione del giudice italiano in base alla Convenzione dell’Aja del 1961 sulla competenza delle autorità e sulla legge applicabile in materia di protezione dei minori, resa esecutiva con legge 24 ottobre 1980 n. 742, così come non sussiste una violazione dell’articolo 16 delle Preleggi nell’esercizio del potere giurisdizionale nei confronti di un minore residente in Italia, anche in relazione all’adozione di misure che riguardano il padre, straniero e privo di permesso di soggiorno. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, I sezione civile, con ordinanza n. 8762 depositata il 28 marzo 2023 (ordinanza 8762) con la quale la Suprema Corte ha respinto il ricorso di una donna la quale non voleva che al figlio fosse anche attribuito il cognome del padre a seguito del riconoscimento del bimbo. Ad avviso della donna, questa preclusione doveva essere prevista in quanto il padre era di “dubbia moralità”. La Corte di appello dell’Aquila aveva respinto la posizione della madre, consentendo l’aggiunta del cognome paterno. Così, la madre ha impugnato il provvedimento in Cassazione sostenendo che non era stato audito il figlio minorenne (che aveva solo 8 anni) e che la Corte non aveva valutato le caratteristiche fisiche e morali del padre, che avrebbero comportato un grave pregiudizio per il minore. Motivi infondati per la Cassazione secondo la quale il diritto al riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio può “essere sacrificato solamente in presenza di motivi gravi ed irreparabili tali da compromettere in modo irreversibile lo sviluppo psicofisico del minore”. Nel caso in esame, non vi erano ragioni di gravità tale da precludere il riconoscimento e la successiva attribuzione del cognome, oltre alla circostanza che erano del tutto irrilevanti le caratteristiche somatiche (invocate dalla madre per giustificare il no al riconoscimento) “non potendo il giudizio sul riconoscimento essere fondato su canoni discriminatori”. Nessuna necessità, inoltre, per l’esercizio della giurisdizione italiana di un’autorizzazione del Paese di origine tanto più che, già in passato, la Suprema Corte, nell’applicazione della Convenzione dell’Aja del 1961, ha chiarito che la competenza giurisdizionale deve essere attribuita in via generale allo Stato di dimora abituale del minore. Respinto così il ricorso, salvo nella parte in cui la donna aveva chiesto di valutare gli obblighi di mantenimento del padre e il rimborso delle spese sostenute dalla donna per la crescita del bambino.
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