L’Italia ha applicato correttamente la sentenza resa dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Drassich (ricorso n. 65173/09, AFFAIRE DRASSICH c. ITALIE (N? 2)). E’ la stessa Corte di Strasburgo a stabilirlo con la sentenza depositata il 22 febbraio. A rivolgersi alla Corte europea, un magistrato il quale sosteneva che gli organi giurisdizionali interni non avessero applicato la pronuncia di Strasburgo dell’11 dicembre 2007 con la quale era stata accertata una violazione dell’articolo 6 della Convenzione relativamente all’equità del processo e al diritto di essere informati nel più breve tempo possibile delle accuse a proprio carico. Le origini della sentenza risalivano al processo penale a carico del ricorrente il quale contestava la riqualificazione del fatto (da corruzione a corruzione in atti giudiziari) effettuata dai giudici nazionali, situazione che aveva comportato l’applicazione di termini diversi in materia di prescrizione rispetto al capo d’accusa originario. La Corte europea aveva accertato la violazione dell’articolo 6 par. 1 e par. 3 perché l’imputato non era stato informato in modo dettagliato della natura e dell’oggetto dell’accusa e non aveva avuto il tempo sufficiente a preparare la propria difesa. La Corte non aveva ritenuto necessario concedere un indennizzo, ma aveva affermato che quando un procedimento interno è stato concluso in violazione dell’articolo 6 il mezzo appropriato per riparare la violazione è un nuovo processo o la riapertura del procedimento su domanda dell’interessato. Quest’ultimo aveva presentato un ricorso alla Corte di appello di Venezia con il quale aveva chiesto di dichiarare non esecutiva la sentenza di condanna, nonché l’annullamento della pronuncia nella parte relativa alla corruzione in atti giudiziari. La Corte di cassazione aveva proceduto a correggere l’errore procedurale fornendo all’accusato la possibilità di interloquire sulla riqualificazione dei fatti di corruzione, applicando in modo analogico l’articolo 625bis c.p.p. Così, la Cassazione aveva revocato la sentenza di condanna nella parte sulla corruzione giudiziaria e proceduto a un nuovo esame. Il ricorrente aveva contestato la conclusione della Cassazione e presentato nuovamente un ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo ritenendo che non fosse stata eseguita correttamente la sentenza CEDU, con la conseguenza che, a suo dire, si era realizzata una nuova violazione della Convenzione. Di diverso avviso Strasburgo che ha respinto il ricorso. Nessun dubbio – scrive la Corte europea – che il ricorrente ha ottenuto una riapertura del procedimento che, in questo caso, è stato conforme agli standard relativi all’equo processo: il ricorrente era consapevole della riqualificazione del fatto e non vi era bisogno – come da lui sostenuto – di alcuna espressa notificazione formale dell’accusa di corruzione in atti giudiziari. L’articolo 6, par. 3,- osserva Strasburgo – non impone alcuna forma particolare circa le modalità con le quali l’imputato deve essere informato della natura e dell’oggetto dell’accusa contro di lui. A ciò si aggiunga che l’uomo ha avuto la possibilità di presentare due memorie scritte e, quindi, i giudici internazionali non hanno ritenuto che fosse necessario un rinvio d’ufficio a un giudice di merito. Per quanto riguarda l’impossibilità di comparire direttamente nel procedimento in Cassazione, la Corte europea sottolinea la necessità di considerare il processo nell’ambito dell’ordinamento giuridico interno e il ruolo che ha giocato la Corte di cassazione relativo unicamente alla valutazione di questioni di diritto e non di fatto. Situazione che porta la Corte europea a concludere per la piena conformità del procedimento interno all’articolo 6 della Convenzione e al rigetto del ricorso.
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