I detenuti hanno diritto di conferire con il proprio difensore senza limiti prefissati perché solo così è affermata la tutela di una garanzia fondamentale come il diritto alla difesa che deve essere assicurato anche a coloro che sono sottoposti al 41 bis. E’ il principio stabilito dalla Corte costituzionale che, con sentenza n. 143 depositata il 20 giugno 2013, ha stabilito l’illegittimità dell’articolo 41-bis, comma 2-quater, lettera b, ultimo periodo della legge 26 luglio 1975 n. 634, modificato dalla n. 94 del 15 luglio 2009 (pronuncia_143_2013). Questo perché la norma in esame, come modificata nel 2009, fissa per i detenuti sottoposti al regime speciale restrizioni numeriche nel colloquio con il difensore a differenza di quanto accade per i detenuti comuni. Le limitazioni apposte – osserva la Consulta – “si traducono in un vulnus del diritto di difesa incompatibile con la garanzia di inviolabilità sancita dall’art. 24, secondo comma, Cost.”. A tal proposito, i giudici costituzionali hanno richiamato la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. In alcune occasioni Strasburgo ha ammesso che sia possibile limitare i contatti confidenziali tra un detenuto e il suo avvocato, ma ciò solo in casi eccezionali e senza compromettere l’effettività del diritto alla difesa che deve essere garantito in tutte le circostanze. D’altra parte, precisa la Corte costituzionale, nella sentenza Ocalan contro Turchia del 21 marzo 2003, in una vicenda simile a quella italiana, la Corte ha considerato che il sistema turco violasse il diritto all’equo processo proprio a causa delle limitazioni dei colloqui con il difensore.
Di qui la dichiarazione di incostituzionalità della disposizione in discussione e la necessità di rimettere mano alla norma per non incorrere in una condanna da Strasburgo.
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