Protocollo n. 16: la Grande Camera chiude le porte alla richiesta di parere arrivata dalla Cassazione rumena

Mentre l’Italia continua a non ratificare il Protocollo n. 16, in vigore dal 1° agosto 2018 e ratificato da 22 Stati, che ha introdotto nel sistema di Strasburgo un meccanismo simile al rinvio pregiudiziale d’interpretazione predisposto nel Trattato Ue (anche se il parere fornito dalla Grande Camera non è vincolante a differenza della sentenze della Corte Ue), la Grande Camera prosegue la sua attività in questo campo grazie alle numerose richieste che arrivano dai giudici supremi nazionali. Con decisione depositata il 28 giugno, infatti, il panel di 5 giudici della Grande Camera ha respinto la domanda presentata dalla Cassazione rumena (istanza n. P16-2024-001 (Parere Romania). È opportuno ricordare che il Protocollo n. 16 prevede che le corti supreme di uno Stato parte alla Convenzione europea possano sospendere il procedimento interno e chiedere alla Grande Camera un parere sull’interpretazione o sull’applicazione di una norma convenzionale e sui protocolli addizionali. La richiesta deve superare il filtro di un panel di 5 giudici che, in caso di rigetto dell’istanza, sono tenuti a fornire un’adeguata motivazione, situazione che si è verificata nel caso di specie.

Questi i fatti. La Suprema Corte di Bucarest aveva chiesto a Strasburgo di chiarire i criteri per qualificare un procedimento, classificato nell’ordinamento interno come civile, tra quelli di natura penale. Nel 2007, la Romania aveva introdotto un sistema di valutazione e di monitoraggio del patrimonio di alcuni dipendenti pubblici, nel momento in cui la Romania aveva aderito all’Unione europea. In pratica, 39 categorie di funzionari pubblici sono tenuti a dichiarare il proprio patrimonio. Era stata istituita anche un’Agenzia nazionale per l’integrità, competente a valutare le indicate dichiarazioni. Nel caso di differenze significative tra quanto dichiarato e quanto effettivamente rientrante nel patrimonio del dipendente pubblico, l’Agenzia nazionale passa la questione a una commissione d’inchiesta, istituita presso le corti di appello. Se è accertata una discrepanza, l’Agenzia può adire la Corte di appello e chiedere finanche la confisca degli importi eccedenti. Tale decisione può essere poi impugnata dinanzi alla Cassazione. Su tale meccanismo era anche intervenuta la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza del 4 maggio 2023 (C-40/21). La vicenda per la quale è stato chiesto il parere riguarda una società che si era rivolta all’Agenzia nazionale rivelando che la dichiarazione patrimoniale di un dipendente pubblico non era veritiera: la vicenda era arrivata in Cassazione e quest’ultima ha chiesto taluni chiarimenti alla Corte europea dei diritti dell’uomo sull’articolo 6 della Convenzione e sull’articolo 1 del Protocollo n. 1, in particolare per la qualificazione di un procedimento come penale ai sensi della giurisprudenza della Corte europea malgrado nell’ordinamento interno esso sia qualificato come civile. Prima di tutto, la Grande Camera ha verificato che siano state rispettate le condizioni per attivare il meccanismo disposto dal Protocollo n. 16 e ha osservato che, in base all’articolo 2, la domanda è arrivata da una formazione giudiziaria e la questione pende dinanzi al giudice nazionale. La questione sollevata ossia se la procedura di valutazione patrimoniale possa essere qualificata come procedura penale è stata oggetto di diverse pronunce della Corte europea che sono state correttamente richiamate dalla Cassazione rumena, con particolare attenzione ai criteri Engel che considerano rilevanti la qualificazione giuridica del reato nel diritto interno, la natura del reato e la severità della pena. Strasburgo, precisato che il primo criterio ha un peso relativo e serve solo come punto di partenza, mentre il secondo e il terzo sono più rilevanti, richiama la pronuncia della Corte di giustizia Ue sulla legge rumena anche se gli eurogiudici si sono pronunciati su un altro aspetto della legge in esame ossia sul divieto di ricoprire cariche pubbliche elettive per un periodo di tre anni a causa di un conflitto di interessi, arrivando alla conclusione, sempre sulla base dei criteri Engel, che il divieto non era di natura particolarmente grave e non poteva essere considerato come di natura penale. Alla luce di un quadro giurisprudenziale già chiaro con riguardo agli aspetti della qualificazione del procedimento, la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene che il giudice nazionale possa pronunciarsi applicando la giurisprudenza esistente sia con riguardo alla qualificazione penale o civile (articolo 6) sia con riguardo all’articolo 1 del Protocollo 1 (diritto di proprietà). Di conseguenza, proprio in ragione di tutti gli strumenti già in mano del giudice nazionale, la Corte afferma che non è stata soddisfatta la seconda condizione di ammissibilità necessaria per ammettere la richiesta di parere, non ritenendo necessario accertare la presenza delle altre condizioni. Strasburgo, inoltre, ha osservato, per inciso, che non sono chiari i motivi per cui in un caso (quello di ricoprire cariche pubbliche) i giudici rumeni si sono rivolti alla Corte Ue, mentre per la procedura di accertamento patrimoniale abbiano scelto di chiedere a Strasburgo un parere consultivo. Va sottolineato che la Corte europea ha anche dato peso alla circostanza che dinanzi alla stessa Corte di Strasburgo pende una causa (Pacurar contro Romania, ricorso n. 17985/18) e che le sentenze della Corte non servono solo a risolvere il caso di specie, ma anche a chiarire la corretta interpretazione delle norme convenzionali. Di qui la conclusione di rigetto della richiesta di parere.

Si veda il post http://www.marinacastellaneta.it/blog/dialogo-tra-corti-aggiornate-le-linee-guida-sul-protocollo-n-16.html.

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