In una sentenza sul rapporto tra media e trial, in una vicenda che vedeva contrapposti libertà di stampa e diritti delle persone coinvolte in uno scandalo bancario, la Corte europea dei diritti dell’uomo ha chiarito che, se si tratta di una questione di interesse generale, il giornalista ha diritto di svelare l’identità di una persona che potrebbe essere coinvolta in un procedimento giudiziario. Con la sentenza depositata il 25 ottobre, Verlagsgruppe New GmbH contro Austria (ricorso n. 60818/10, case-of-verlagsgruppe-news-gmbh-v-austria), Strasburgo ha così condannato l’Austria per violazione dell’articolo 10 della Convenzione europea che assicura il diritto alla libertà di espressione. E’ stato l’editore di un magazine con sede a Vienna a rivolgersi alla Corte dopo che i giudici nazionali avevano deciso una sanzione nei suoi confronti perché in un articolo pubblicato sul giornale era stata svelata l’identità di un dirigente di una banca che aveva subito gravi perdite a causa di manovre speculative rischiose. Secondo la Corte suprema austriaca, il giudice di appello, nel decidere la sanzione, aveva effettuato un giusto bilanciamento tra articolo 8 della Convenzione che assicura il diritto alla vita privata e articolo 10 che garantisce la libertà di espressione, tutelando il dirigente. Di diverso avviso la Corte europea che ha dato ragione all’editore, nel segno della libertà di stampa. La Corte riconosce che, nelle questioni giudiziarie, va evitato il cosiddetto “trial by the media” e garantito il diritto alla presunzione d’innocenza, ma la stampa ha l’obbligo di divulgare questioni di interesse generale e contribuire a informare la collettività. In questi casi – osserva Strasburgo – il margine di apprezzamento degli Stati e, quindi, l’ingerenza nel diritto alla libertà di di stampa è ridotto, con la conseguenza che i giornalisti hanno un ampio margine di azione. La Corte europea sembra poi entrare nel merito degli accertamenti compiuti dai giudici nazionali ritenendo che il dirigente della banca non appariva affatto in una posizione subordinata (come sostenuto nei giudizi nazionali), anche se non era membro del consiglio di amministrazione, poiché autorizzava la conclusione di contratti e transazioni. Certo, non si trattava di un personaggio pubblico ma questo è solo uno degli elementi da prendere in considerazione per valutare se vi è stata un’ingerenza nella vita privata di un individuo. Tra l’altro, nel caso in esame, non è stato utilizzato un linguaggio offensivo o provocatorio e non si può dire che l’articolo ha avuto conseguenze negative sulla carriera del dirigente tenendo conto che la questione, nel cerchio professionale dell’uomo, era già ben nota prima della pubblicazione dell’articolo. Irrilevante, poi, – precisa la Corte – la chiusura del procedimento penale a suo carico. Sul fronte delle sanzioni disposte a carico dell’editore, la Corte europea giudica eccessiva la sanzione (3mila euro), che non è stata simbolica. Di qui la constatazione che i tribunali nazionali sono andati al di là del margine di apprezzamento concesso agli Stati su questioni di interesse generale e l’obbligo per l’Austria di versare all’editore 7.873 euro per i danni patrimoniali e 2.750 euro per le spese processuali.
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