Se si ferma la catena genealogica, il cittadino italiano che ha acquisito quella statunitense e rinunciato alla prima, non può trasmettere la cittadinanza italiana ai discendenti. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, prima sezione civile, con ordinanza n. 454 depositata l’8 gennaio 2024 (Cittadinanza). A rivolgersi alla Suprema Corte è stato un cittadino statunitense che aveva chiesto il riconoscimento della cittadinanza italiana che, a suo avviso, gli era stata trasmessa per discendenza. L’ufficiale di stato civile, il Tribunale di Roma e la Corte di appello avevano respinto la richiesta e così l’uomo ha impugnato il provvedimento dinanzi alla Cassazione. A suo avviso, al momento della nascita, egli avrebbe avuto sia la cittadinanza statunitense in forza dello ius soli, sia quella italiana iure sanguinis in quanto al momento della nascita suo padre era cittadino italiano. L’uomo sosteneva di non aver perso la cittadinanza l’anno successivo alla nascita quando il padre aveva acquisito quella statunitense in quanto non era applicabile l’articolo 11 del codice civile del 1865, che, a suo avviso, riguardava i figli minori che non erano già cittadini di un altro Stato. Il ricorrente, quindi, riteneva di avere, al momento della nascita, la doppia cittadinanza. La Corte di Cassazione, respinta la richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ha precisato che le questioni relative alla perdita della cittadinanza italiana dipendono unicamente dalla legislazione nazionale, con il limite costituito dall’esistenza di un collegamento effettivo tra lo Stato e la persona di cui si tratta poiché “il nesso di cittadinanza non può mai essere fondato su una fictio“. Nel caso in esame, è stato correttamente applicato l’articolo 11 del codice del 1865 il quale dispone che la cittadinanza è persa da colui che ha ottenuto quella di un altro Stato e che ciò vale anche per la moglie e i figli, salvo nel caso di residenza di questi ultimi sul territorio italiano. L’ascendente aveva ottenuto la cittadinanza statunitense e il figlio aveva perso quella italiana, così come il figlio di quest’ultimo. Questo effetto trascinante su un soggetto che non aveva capacità di agire è stato mitigato dalla possibilità per il figlio del cittadino italiano di recuperare la cittadinanza una volta divenuto maggiorenne, opzione della quale, però, l’ascendente non si era avvalso. La Cassazione ritiene che il meccanismo di perdita della cittadinanza italiana, istituito in passato, nei casi in cui già si possieda quella di uno Stato straniero sia stato lungimirante perché “anticipa le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sulla riduzione dei casi di apolidia, adottata a New York il 30 agosto 1961”. È vero che la legge n. 555/1912, prima normativa organica sulla cittadinanza, poi modificata dalla legge n. 91/1992, è fondata su un sistema arcaico in cui la decisione del capo famiglia che esercita la patria potestà produce effetti anche nella sfera giuridica dei minori, ma questo sistema non appare alla Cassazione, anche tenendo conto del diritto Ue e del diritto internazionale, “manifestamente sproporzionato rispetto agli scopi che si propone(va) e cioè salvaguardare l’unità familiare, anche sotto il profilo della cittadinanza”. Né è accantonata la valutazione dell’interesse del minore, nel rispetto, quindi, della Convenzione di New York sui diritti del fanciullo perché una volta diventato maggiorenne il figlio può riacquistare la cittadinanza italiana avvalendosi di quanto previsto dalla legge. Respinto così il ricorso.
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