Paese di origine sicuro: il Governo prova a rimettere in discussione il primato del diritto Ue

Il diritto Ue parla chiaro e la Corte di giustizia dell’Unione europea lo ha ulteriormente precisato. Gli Stati membri non possono indicare un Paese terzo come Paese di origine sicuro se in alcune parti del territorio non sono rispettate le condizioni richieste per classificarlo come tale. La sentenza della Corte Ue depositata il 4 ottobre 2024, nella causa C-406/22 (C-406:22), ha affermato che l’articolo 37 della direttiva 2013/32 sulle procedure comuni ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di protezione internazionale (recepita in Italia con Dlgs 18 agosto 2015, n. 142) non consente agli Stati membri di designare un Paese terzo come Paese di origine sicuro se in alcune parti del suo territorio non sono rispettate le condizioni richieste dalla direttiva per qualificarlo come sicuro e, quindi, se non sono garantiti i requisiti dell’allegato I. A rivolgersi alla Corte di giustizia è stata la Corte regionale di Brno (Repubblica Ceca) alle prese con la richiesta di un cittadino moldavo, testimone di un incidente stradale a seguito del quale era stato minacciato e aggredito, che era entrato nel territorio della Repubblica ceca con documenti falsi e si era visto respingere la domanda di protezione internazionale sulla base del fatto che, per un decreto interno, la Repubblica ceca considera la Moldova come “Paese di origine sicuro” ad eccezione della zona della Transnistria.

La Corte di giustizia, nel chiarire le condizioni per classificare uno Stato come “Paese di origine sicuro”, ha osservato che gli Stati membri possono individuare i Paesi di origine sicuri (qui gli elenchi aggiornati https://whoiswho.euaa.europa.eu/pages/safe-country-concept.aspx), trasmettendo l’elenco alla Commissione europea, nel rispetto dei parametri indicati nella direttiva. In particolare, l’allegato I dispone che gli Stati devono considerare lo status giuridico, l’applicazione della legge all’interno di un sistema democratico e la situazione politica generale, l’assenza di persecuzioni generali e costanti quali definite nell’articolo 9 della direttiva [2011/95] e che nel Paese non si applichi la tortura “o altre forme di pena o trattamento disumano o degradante, né pericolo a causa di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”. La direttiva – precisa la Corte –  non prevede l’esclusione di parti del territorio e, il richiamo espresso all’assenza di persecuzioni e altre violazioni simili “generalmente e costantemente”, depone nel senso dell’inammissibilità di designazioni parziali. D’altra parte, la procedura accelerata prevista nel caso in cui la richiesta di protezione internazionale riguardi cittadini di Paesi di origine sicuri ha carattere eccezionale rispetto alla procedura ordinaria e, quindi, non si può estendere l’ambito di applicazione del regime speciale.

Malgrado la Corte si sia soffermata solo sugli aspetti territoriali, l’espressione “generalmente e costantemente” include, a nostro avviso, anche il divieto di designazioni parziali sotto il profilo soggettivo, con la conseguenza che non può essere designato Paese di origine sicuro quello in cui sono escluse non solo parti del territorio ma anche determinate categorie di persone. A ulteriore conferma dell’impossibilità di considerare un Paese di origine sicuro quello in cui cui talune parti del territorio non hanno le caratteristiche richieste ai fini della definizione, la Corte richiama il contesto in cui l’atto Ue è stato adottato. Prima dell’adozione della direttiva 2013/32, in base all’articolo 30 della direttiva 2005/85, infatti, era espressamente previsto che gli Stati membri potessero designare come sicuro un Paese anche se alcune parti del territorio non rispettavano le condizioni richieste ai fini della classificazione o se il Paese non fosse sicuro solo per determinate categorie di persone, ma questa disposizione è stata abrogata. Di conseguenza, poiché tale designazione parziale, sia sotto il profilo oggettivo sia sotto quello oggettivo, non è espressamente riconosciuta dall’articolo 37 e dall’allegato I della direttiva 2013/32, è evidente che l’Unione europea ha voluto escludere la possibilità di considerare Paesi sicuri quelli che lo siano solo in modo parziale. Inoltre, anche se non richiamato espressamente dalla Corte, si deve tenere conto che il regolamento 2024/1348 del 14 maggio 2024, che stabilisce una procedura comune di protezione internazionale nell’Unione e regolamento 2024/1347 recante norme sull’attribuzione a cittadini di paesi terzi o apolidi della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria e sul contenuto della protezione riconosciuta, prevedono espressamente la possibilità di designare un Paese di origine sicuro escludendo determinate parti del territorio o determinate categorie di persone chiaramente identificabili (articolo 61 del regolamento 2024/1348). Tuttavia, questo regolamento sarà applicabile dal 12 giugno 2026 e, quindi, allo stato attuale vale il divieto di considerare un Paese di origine sicuro se sono escluse alcune zone del suo territorio.

A seguito del chiarimento della Corte di giustizia dell’Unione europea, correttamente, il Tribunale di Roma, con i decreti del 18 ottobre, ha applicato le regole e disposto la prevalenza del diritto dell’Unione ritenendo così di non convalidare il trattenimento di un cittadino del Bangladesh e in un altro caso di un cittadino egiziano in ragione del fatto che quei due Paesi sono considerati sicuri con esclusione di determinate categorie di persone. (https:www.questionegiustizia.it:data:doc:3971:trib-roma-18-10-24-no-convalida)

Il Governo ha ritenuto di dover intervenire subito, malgrado l’evidente assenza di ogni urgenza anche in ragione della fallimentare applicazione, tenendo conto delle finalità perseguite, del Protocollo Italia-Albania che, a una prima attuazione, ha riguardato solo 12 migranti. Pertanto, è stato adottato il  decreto legge 23 ottobre 2024, n. 158 “Disposizioni urgenti in materia di procedure per il riconoscimento della protezione internazionale (DL n. 158:2024)”, per assicurare la piena realizzazione del Protocollo Italia – Albania e permettere, in sostanza, che i migranti  che rientrano nell’ambito di applicazione del Protocollo e che sono trasportati in Albania, se provenienti da un Paese sicuro elencato nel decreto legge, siano destinatari della procedura accelerata con un rimpatrio rapido nei propri Paesi classificati dall’Italia come sicuri. In pratica, il Governo ritiene che il semplice passaggio di quest’elenco di Paesi sicuri (da 22 a 19) dal decreto ministeriale (quello del 7 maggio 2024) a una fonte legislativa come un decreto-legge sia la bacchetta magica per permettere il funzionamento del Protocollo fortemente voluto dal Governo. In realtà, si tratta di un’illusione e di un errore giuridico perché l’elenco dei Paesi sicuri non è affatto blindato rispetto agli “attacchi” del diritto Ue per il solo fatto di essere contenuto in una fonte legislativa proprio in ragione del fatto che, come chiarito dalla Corte costituzionale, dal legislatore italiano, dal diritto dell’Unione e dalla Corte di giustizia dell’Unione europea, va assicurato il primato del diritto Ue su quello interno e, quindi, in presenza di effetti diretti assicurata la disapplicazione del diritto interno. Intanto, Tribunale di Bologna, con l’ordinanza del 25 ottobre, ha sollevato due questioni pregiudiziali alla Corte Ue per chiarire, sempre con riguardo alla nozione di Paese di origine sicuro, se la designazione di tale Paese sia legittima soltanto quando “si può dimostrare che non ci sono generalmente e costantemente persecuzioni quali definite nell’articolo 9 della direttiva 2011/95/UE né rischi reali di danno grave come definiti nell’Allegato I della Direttiva 2013/32/UE”. Inoltre, il Tribunale di Bologna, ha chiesto di chiarire se il principio “del primato del diritto europeo ai sensi della consolidata giurisprudenza della Corte imponga di assumere che in caso di contrasto fra le disposizioni della Direttiva 2013/32/UE in materia di presupposti dell’atto di designazione e le disposizioni nazionali sussista sempre l’obbligo per il giudice nazionale di non applicare queste ultime, in particolare se il dovere di disapplicare l’atto di designazione permanga anche nel caso in cui la designazione venga operata con disposizioni di rango primario, quale la legge ordinaria”, quesito che, in realtà ci sembra già varie volte chiarito dalla Corte di giustizia e dalla Corte costituzionale (Trib Bologna Rinvio Pregiudiziale CGUE 29-10-2024).

 

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