La Corte di Cassazione è intervenuta con la sentenza n. 31201, quarta sezione penale, depositata il 9 luglio per chiarire la portata della direttiva 2014/41/UE relativa all’ordine europeo di indagine penale (OEI), recepita in Italia con il decreto legislativo n. 108 del 21 giugno 2017 (31201). A rivolgersi alla Cassazione è stato il destinatario di un provvedimento di custodia cautelare in carcere, accusato di associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. La misura era stata adottata dal Gip del Tribunale di Reggio Calabria e confermata dalla sezione per il riesame sulla base di un’indagine nella quale le autorità competenti italiane si erano avvalse della documentazione acquisita dall’autorità francese mediante un ordine europeo di indagine. Tra gli altri motivi di ricorso, l’uomo sosteneva che la mancata traduzione in italiano della risposta delle autorità francesi in esecuzione dell’ordine europeo di indagine, avrebbe compromesso le sue possibilità di difesa tanto più che si trattava del solo atto che avrebbe permesso ai difensori di “avere contezza delle modalità di acquisizione del materiale intercettato”. Una tesi respinta dalla Cassazione secondo la quale nel caso di specie va applicato l’articolo 242 c.p.p. in base al quale nel caso di acquisizione di un documento redatto in una lingua diversa da quella italiana “il giudice ne dispone la sua traduzione….se ciò è necessario alla sua comprensione”. Ciò attesta l’inesistenza di un obbligo di traduzione per ogni documento. Inoltre, osserva la Suprema Corte, non esiste un diritto dell’imputato ad ottenere la traduzione di tutti i documenti acquisiti in una lingua straniera. Nel caso in esame, inoltre, le chat potevano essere utilizzate perché l’autorità francese aveva agito nel pieno rispetto della regolamentazione dell’ordine europeo di indagine e l’attività di decriptazione era stata corretta. La direttiva 2014/41 assicura un alto livello di protezione dei diritti fondamentali e di altri diritti processuali delle persone indagate, “perseguendo l’obiettivo di una neutralità dell’OEI rispetto a tali diritti, nel senso che l’acquisizione di prove in un altro Stato membro non dovrebbe incidere sulle garanzie della persona indagata, in particolare per quanto riguarda il diritto a un giusto processo”. Questo, scrive la Corte, si desume dai considerando della direttiva e dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e porta a ritenere che lo Stato membro che esegue l’ordine europeo abbia agito nel rispetto di tali diritti. È certo possibile contestare il mancato rispetto dei diritti fondamentali da parte dello Stato di esecuzione dell’OEI, tenendo conto che l’autorità di detto Stato è garante della compatibilità dell’OEI con gli obblighi dello Stato di esecuzione, ma la contestazione dinanzi all’autorità dello Stato di emissione “deve avere contenuto puntuale e adeguato corredo dimostrativo”. Ciò non era avvenuto nel caso in esame, con il consequenziale rigetto del ricorso e la piena applicazione del materiale acquisito attraverso l’ordine europeo di indagine.
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