Un atto è classificabile come discriminatorio solo si verifica un trattamento meno favorevole per un individuo o se sussiste una posizione di particolare svantaggio. Non basta la sola percezione soggettiva dell’individuo passivo, che non è un elemento necessario per accertare o escludere l’esistenza di una discriminazione. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 10095/2020 depositata il 28 maggio 2020 (10095:20). A rivolgersi alla Cassazione sono stati alcuni cittadini marocchini che avevano deciso di trasferirsi dal sud, con le proprie famiglie, per ragioni economiche, in un comune del nord Italia. Secondo la loro ricostruzione, il Sindaco del Comune li aveva contattati sostenendo che era “inammissibile” la loro presenza in ragione delle loro precarie condizioni economiche. Ne era nata un’ulteriore controversia visto gli impegni di locazione già presi dai ricorrenti. Sia il Tribunale di Lecce, sia la Camera di appello avevano negato l’esistenza di condotte discriminatorie. Di qui il ricorso in Cassazione. Prima di tutto, la Suprema Corte, anche alla luce del diritto Ue, ha interpretato l’articolo 43 del Dlgs 286/1998, che chiarisce la nozione di discriminazione, stabilendo che è discriminatoria una condotta che ha come scopo o effetto “la lesione di un diritto umano o di una libertà fondamentale”. Si prescinde, quindi, dalla rilevanza degli stati soggettivi sia di colui che compie l’atto considerato discriminatorio, sia del soggetto che lo subisce. La condotta – osserva la Cassazione – va considerata discriminatoria “se determina un trattamento meno favorevole, o anche solo una posizione di particolare svantaggio, dipendente dai fattori di distinzione ritenuti meritevoli di neutralizzazione”. Nel momento in cui sussistono gli elementi di fatto, l’attore gode di un’attenuazione dell’onere della prova, grazie all’esistenza di una “presunzione legale relativa”, in linea con la giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, a partire dalla sentenza del 21 luglio 2011 (causa C-104/10). La Corte Ue, infatti, ha sottolineato che il soggetto passivo-attore deve far valere “e dimostrare in un primo momento, i fatti che consentano di presumere l’esistenza di una discriminazione diretta o indiretta”. Tuttavia, provato ciò, tocca al convenuto dimostrare che non è stato leso il principio di non discriminazione. In questo caso, però, era mancata una base di fatto iniziale. Per quanto riguarda il no alla richiesta di iscrizione anagrafica, la Suprema Corte ha precisato che sono condotte discriminatorie quelle dei Comuni che pongono ostacoli a detta iscrizione. Sul punto, ad avviso della Cassazione, i giudici di merito non hanno valutato l’esito e i problemi relativi all’iscrizione anagrafica, ma i ricorrenti non hanno rispettato gli obblighi fissati dall’articolo 360, n. 5, del codice di procedura civile in tema di ricorso per vizio di motivazione e, quindi, anche per questa parte il ricorso è stato respinto.
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