In caso di comportamenti omofobi, la pubblica amministrazione, in ragione della gravità del fatto e della contrarietà di detti comportamenti alla Costituzione e alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, deve corrispondere alla parte lesa un indennizzo adeguato. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sezione terza civile, nella sentenza n. 1126/2015 depositata il 22 gennaio (1126). Alla Suprema Corte si era rivolto un uomo che durante la visita per il servizio militare nel lontano 2001 aveva dichiarato la propria omosessualità. Era stato così esentato dal servizio militare, ma il ministero della difesa aveva comunicato gli esiti della visita al ministero delle infrastrutture e dei trasporti. L’uomo era stato così chiamato dalla motorizzazione di Catania per la revisione della patente, con la richiesta di un nuovo esame di idoneità psicofisica. Di qui il ricorso per violazione della privacy dinanzi ai giudici di merito. In primo grado, il tribunale aveva disposto un risarcimento di 100mila euro, ma la Corte di appello di Catania aveva ridotto l’importo, prevedendo un indennizzo di soli 20mila euro. Un errore, chiarisce la Cassazione. Nella quantificazione del danno morale, i giudici di appello non hanno considerato che si è verificata una compromissione del diritto costituzionalmente tutelato alla libera espressione della propria identità sessuale. Così, non si è tenuto conto di quanto già stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Dudgeon contro Regno Unito. Sin dal 1981, infatti, la CEDU ha chiarito che il diritto al proprio orientamento sessuale include 3 componenti: la condotta, l’inclinazione e la comunicazione. Ora, per il solo fatto di aver comunicato il proprio orientamento, il ricorrente ha dovuto subire un procedimento di revisione della patente, con una connessa violazione della privacy. Di qui la constatazione del fatto che la pubblica amministrazione ha avuto un vero e proprio comportamento omofobo e vessatorio. Ciò ha spinto la Cassazione, in ragione della gravità del fatto, ad annullare la pronuncia dei giudici di appello e chiedere un ricalcolo dell’indennizzo.
Va segnalato che la vicenda è iniziata nel 2011 e che il primo ricorso giurisdizionale è stato depositato nel 2002. Dopo 13 anni il caso non si è così ancora concluso.
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