Il giudice nazionale deve bloccare l’ingresso di atti di tribunali islamici che mettono la donna in una situazione di inferiorità. E’ quanto ha affermato l’Avvocato generale della Corte di giustizia dell’Unione europea, Saugmandsgaard Øe, nelle conclusioni depositate il 14 settembre (C-372/16, C-372:16) con le quali è stata affermata la primazia della tutela dei valori comuni dell’Unione europea, incluso il divieto di discriminazione nei confronti della donna. E’ stato il tribunale regionale superiore di Monaco di Baviera a sottoporre alla Corte di giustizia dell’Unione europea alcune questioni interpretative prima di risolvere una controversia tra una coppia di cittadini siriani (che aveva acquisito anche la cittadinanza tedesca). I partner si erano sposati in un tribunale islamico di Homs (Siria) e, dopo vari spostamenti, erano rientrati in Germania. Il marito si era rivolto al tribunale religioso della sharia in Siria e aveva ottenuto il divorzio. La donna, secondo le regole della sharia, aveva dovuto firmare un dichiarazione con la quale accettava una somma di denaro e liberava il marito da ogni obbligo nei suoi confronti. L’uomo aveva chiesto ai giudici tedeschi il riconoscimento della pronuncia di divorzio. In un primo tempo aveva ottenuto il sì al riconoscimento, ma la ex moglie si era opposta e il tribunale regionale, prima di decidere, si è rivolto a Lussemburgo per l’interpretazione del regolamento n. 1259/2010 sull’attuazione di una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale (“Roma III”), in vigore dal 2012.
Prima di tutto, l’Avvocato generale parte dalla constatazione che il regolamento si attua solo per le questioni relative all’individuazione della legge applicabile, con la conseguenza che non dovrebbe trovare attuazione nella vicenda in esame. Tuttavia, Saugmandsgaard Øe riconosce una possibile indiretta attuazione nella vicenda in esame, sottolineando che, in ogni caso, nel regolamento Roma III non possono essere inclusi i divorzi cosiddetti privati pronunciati all’estero, in sistemi giuridici di ispirazione musulmana nei quali si ammette lo scioglimento del matrimonio per volontà dello sposo. In quest’ipotesi manca, infatti, l’intervento di un’autorità giurisdizionale nazionale o di un’autorità pubblica. L’Avvocato generale si spinge in ogni caso a fornire una soluzione: l’articolo 10 del regolamento impedisce l’ingresso di leggi straniere che, anche solo in astratto, mostrano una discriminazione tra coniugi che certo sussiste se non vi sono pari condizioni di accesso al divorzio. In quest’ipotesi scatta la tutela dei diritti fondamentali e dei valori comuni dell’Unione europea, con la conseguenza che va sbarrata la strada all’ingresso di un sistema, come quello islamico, che non attribuisce alla moglie le stesse condizioni di accesso al divorzio del marito. Una valutazione ex ante, quindi, che considera irrilevante l’eventuale consenso dato dalla donna e amplia le possibilità di disapplicazione delle regole fondate sulla sharia che discriminano la donna, con l’obbligo di regolare il divorzio in base alla legge del foro (in questo caso quella tedesca). E’ evidente, in questi casi, che, al di là del consenso della donna, si realizza una discriminazione “fondata sull’appartenenza dei coniugi all’uno o all’altro sesso”, discriminazione che “riveste una gravità tale da dover comportare il rigetto assoluto, senza alcuna possibilità di eccezione nel singolo caso concreto, della totalità della legge altrimenti applicabile”.
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