La Corte di giustizia dell’Unione europea, con la sentenza C-42/11 del 5 settembre (11) interviene sull’applicazione della decisione quadro 2002/584/Gai sul mandato di arresto europeo. E lo fa limitando i poteri degli Stati nell’interpretazione dell’atto Ue. Per la Corte di giustizia, infatti, gli Stati non possono inserire nel proprio ordinamento il diritto di opporsi alla consegna in esecuzione di un mandato di arresto ai fini dell’attuazione della pena sul territorio soltanto se si tratta di propri cittadini, eseguendo invece in modo automatico il mandato di arresto per i cittadini di altri Stati, pur integrati nel Paese. In caso contrario, è inevitabile una violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità. Si tratta di una conclusione di grande rilievo destinata a incidere sulle legislazioni nazionali inclusa quella italiana. In fase di recepimento, infatti, molti Stati si sono avvalsi della facoltà concessa dall’articolo 4 della decisione che permette alle autorità giudiziarie di non eseguire la consegna se si tratta di un cittadino o di persona residente nello Stato membro richiesto e quest’ultimo s’impegna all’esecuzione della pena sul territorio. Molti Stati, inclusa l’Italia, hanno previsto questa possibilità nei soli casi in cui si tratti di un cittadino (art. 18, lett. r, legge n. 69/2005): necessario, con la sentenza di ieri, modificare il testo.
A rivolgersi a Lussemburgo è stata la Corte di appello di Amiens (Francia) che ha chiesto agli eurogiudici di chiarire se sia compatibile la decisione quadro una norma interna che attribuisce la facoltà di non eseguire la consegna solo se si tratta di propri cittadini. I giudici portoghesi avevano emesso un mandato di arresto nei confronti di un cittadino condannato a 5 anni per traffico di stupefacenti che però era sposato con una francese e lavorava da molti anni in Francia. In base alla legge francese, però, analoga a quella italiana, il rifiuto alla consegna può essere opposto solo in casi relativi a cittadini. Un’evidente violazione del principio di non discriminazione in base alla nazionalità – osserva la Corte Ue – che impedisce il reinserimento sociale di cittadini di altri Paesi dell’Unione, pur legati a quel territorio. Per la Corte, infatti, la facoltà attribuita agli Stati serve per permettere al condannato, una volta scontata la pena, di inserirsi nella società con la quale ha legami lavorativi, sociali e familiari. Un obiettivo che sarebbe compromesso se la facoltà di respingere la consegna fosse consentita solo per cittadini dello stesso Stato. Non importa, quindi, il dato formale ma il legame effettivo con il Paese. Detto questo, la Corte Ue traccia anche la strada ai giudici nazionali che devono interpretare il diritto interno in modo conforme a quello Ue ed evitare la discriminazione fino a quando il legislatore non metterà mano alle modifiche necessarie. E questo vale anche per l’Italia.
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