Diritto all’oblio sì, ma senza compromettere il diritto alla libertà di espressione e, in ogni caso, con l’adozione di misure che non provochino un effetto dissuasivo sulla libertà d’informazione. La Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 6806 depositata il 7 marzo (oblio), ha respinto il ricorso di un individuo che chiedeva il risarcimento dei danni perché un’agenzia di stampa, a suo dire, aveva violato il diritto all’oblio. Questo perché nel portale dell’agenzia era stata inclusa la notizia del suo arresto e della sua condanna per reati in materia di stupefacenti e tale notizia era stata mantenuta dopo diversi anni. L’uomo dopo aver scontato la pena aveva iniziato una nuova vita, lontana dall’ambiente precedente. La sua fidanzata, che non era a conoscenza dei suoi trascorsi, digitando su Google, aveva rintracciato la notizia dei suoi precedenti sul sito dell’agenzia di stampa e, di conseguenza, aveva rotto la relazione con l’uomo. Di qui la richiesta di rimozione dell’articolo, richiesta che era stata accolta dall’agenzia che, però, aveva respinto, invece, la richiesta di risarcimento del danno che, ad avviso del ricorrente, era dovuto alla circostanza che l’organo di stampa era tenuto a rimuovere automaticamente, dopo un certo periodo, la notizia che lo riguardava. La domanda del ricorrente era stata respinta dal Tribunale di Perugia. La Cassazione ha ugualmente rigettato le richieste del ricorrente. Chiarito che nel caso in esame, per questioni ratione temporis, non era applicabile il regolamento n. 679/2016 relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva 95/46, la Cassazione ha ricordato una continuità tra i due atti e le sentenze della Corte di giustizia dell’Unione europea, dal caso Google Spain (C-131/12) alla sentenza dell’8 dicembre 2022 (C-460/20m Google). Anche prima delle modifiche apportate dal decreto legislativo n. 101 del 10 agosto 2018, ad avviso della Cassazione, la disciplina nazionale contenuta nel codice della privacy (decreto legislativo n. 196 del 30 giugno 2003) richiedeva e richiede che i diritti dell’interessato siano garantiti a seguito di una sua attivazione e, quindi, di una specifica richiesta perché non si può imporre al gestore del motore di ricerca di attivarsi autonomamente perché ciò costituirebbe un onere eccessivo, con un rischio “che siano deindicizzati contenuti che rispondono ad una legittima e preponderante esigenza di informazione del pubblico”, rendendo difficile reperire tali informazioni sul web. Pertanto, spettava all’uomo chiedere la cancellazione o l’oscuramento dei suoi dati. A seguito della sua richiesta, l’agenzia di stampa aveva proceduto in questa direzione e, poi, sarebbe spettato al ricorrente chiedere al motore di ricerca la deindicizzazione. A tutela della libertà di informazione, inoltre, la Cassazione richiede all’interessato la presentazione di elementi di prova “pertinenti e sufficienti, idonei a suffragare la sua richiesta e atti idonei a dimostrare il carattere manifestamente inesatto delle informazioni incluse nel contenuto indicizzato”. In questi casi, il gestore del motore di ricerca è tenuto ad accogliere la richiesta di deindicizzazione. Pertanto, nel caso in esame, l’agenzia di stampa non era tenuta ad eliminare dal proprio archivio la notizia dell’arresto perché era necessaria l’attivazione da parte dell’interessato e, quindi, non va corrisposto alcun risarcimento del danno per la mancata deindicizzazione.
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