La Corte europea dei diritti dell’uomo torna sul ne bis in idem. Con la sentenza depositata l’8 luglio nel caso Mihalache contro Romania (ricorso n. 54012/10, CASE OF MIHALACHE v. ROMANIA) la Grande Camera ha accertato la violazione del principio con riguardo a un caso di guida in stato di ebrezza e si è soffermata sulla nozione di decisione definitiva optando per una qualificazione che si distacca dalle definizioni nazionali a vantaggio di una nozione propria del quadro convenzionale.
Questi i fatti. Il ricorrente era stato fermato durante un controllo stradale e aveva effettuato l’alcol test dal quale era risultato positivo. L’uomo, però, si era rifiutato di sottoporsi all’esame del sangue. La procura aveva chiuso il procedimento penale ritenendo che i fatti non fossero di gravità tale da costituire un reato. Tuttavia, all’uomo era stata inflitta una sanzione amministrativa pari a 250 euro Tuttavia, dopo qualche mese, il procuratore capo aveva deciso di riaprire il procedimento penale ritenendo che la sanzione amministrativa non fosse sufficiente per la serietà dei fatti a lui attribuiti. Era arrivata la condanna a un anno di carcere (pena sospesa) per il rifiuto dell’uomo di sottoporsi agli esami del sangue. La procura aveva chiesto, però, la restituzione della multa versata dal ricorrente. Il cittadino rumeno, divenuta definitiva la pronuncia, si è rivolto alla Corte europea che ha accertato la violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 7 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo che sancisce il principio del ne is in idem perché i due procedimenti interni, incluso quello amministrativo, avevano natura sostanzialmente penale, i fatti erano gli stessi e si era verificata una duplicazione dei processi in quanto la decisione di chiusura del fascicolo nella prima fase del procedimento penale doveva essere considerata come decisione definitiva. La Corte, infatti, ha sottolineato l’incertezza che ha dovuto subire il ricorrente con una prima fase in cui il procedimento era stato chiuso, con una decisione che si poteva considerare definitiva ai sensi della Convenzione e una successiva riapertura del procedimento dopo la conclusione dell’iter amministrativo, senza che fossero emersi fatti nuovi e senza che fossero rispettati i criteri dell’articolo 4, par. 2 del Protocollo n. 7. Inoltre, i due processi non erano integrati e non potevano essere considerati come un unico procedimento. Pertanto, in assenza di legame materiale e temporale “sufficientemente stretto” non è stato rispettato il divieto del ne bis in idem. La stessa misura amministrativa aveva carattere punitivo e la decisione della procura di chiudere il procedimento penale doveva essere classificata come “final decision” ai sensi della Convenzione, con la conseguenza che la riapertura del procedimento sarebbe stata possibile solo in presenza di fatti nuovi o che si fossero manifestati successivamente o di un vizio fondamentale nella procedura. Sul punto la Grande Camera, che ha approfondito anche la nozione di prevedibilità e di “rimedi ordinari”, sembra rivedere i precedenti orientamenti della Corte e si distacca da una qualificazione di decisione finale ancorata al diritto interno. E’ vero che gli Stati hanno il potere di definire la nozione di decisione finale, ma se la Corte europea non effettuasse una valutazione sul punto vanificherebbe il raggiungimento degli obiettivi perseguiti dall’articolo 4, Protocollo 7, di fatto consentendo agli Stati di aggirare il principio. La Corte ha concesso al ricorrente 5.000 euro per i danni non patrimoniali.
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