Le misure di prevenzione personale vanno applicate solo se è garantita la prevedibilità attraverso l’individuazione di condizioni di attuazione e di parametri chiari, per limitare un’eccessiva discrezionalità nell’applicazione. E’ stata la Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo a stabilirlo con la sentenza di parziale condanna all’Italia pronunciata il 23 febbraio (ricorso n. 43395/09, CASE OF DE TOMMASO v. ITALY) a seguito di un ricorso un cittadino italiano colpito per due anni da una misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza e obbligo di soggiorno secondo la legge n. 1423/1956, poi abrogata dal Dlgs n. 159/2011. Per il massimo organo giurisdizionale della Corte europea dei diritti dell’uomo la misura di prevenzione della sorveglianza speciale imposta al ricorrente non era equiparabile a una privazione della libertà personale, con la conseguenza che non è stato violato l’articolo 5 della Convenzione europea sul diritto alla libertà personale, ma l’articolo 2 del Protocollo n. 4 sulla libertà di circolazione. E’ vero – scrive la Grande Camera – che le misure avevano un fondamento nella legge, ma la loro applicazione era legata a un apprezzamento in prospettiva dei tribunali nazionali tanto più che la stessa Corte costituzionale non ha identificato con certezza la nozione di “elementi di fatto” o i comportamenti specifici da classificare come indice di pericolosità sociale. Così, non è stato rispettato il requisito della prevedibilità sia con riferimento ai destinatari delle misure di prevenzione, sia per le condizioni richieste. Quello che non convince la Corte è l’applicazione di misure preventive senza che gli individui possano sapere con chiarezza quali comportamenti, ritenuti pericolosi per società, possono far scattare l’applicazione dei provvedimenti. Di conseguenza, poiché la legge in vigore all’epoca della vicenda non aveva indicato con precisione le condizioni di applicazione e, tenendo conto dell’ampio margine di discrezionalità concesso alle autorità nazionali competenti, l’Italia ha violato la Convenzione, con un’evidente ingerenza nel diritto alla libertà di circolazione. Tanto più – osserva Strasburgo – che al ricorrente non era stato imputato un comportamento o un’attività criminale specifica perché il tribunale competente aveva soltanto richiamato il fatto che aveva frequentazioni assidue con criminali importanti. La decisione, così, è stata fondata sul postulato di una tendenza a delinquere. Di qui la conclusione che la legge in vigore all’epoca dei fatti (che in larga parte corrisponde a quella attualmente in vigore) non offriva una garanzia adeguata contro ingerenze arbitrarie.
La Corte, invece, ha respinto il ricorso per violazione delle regole sull’equo processo e sull’assenza di rimedi giurisdizionali effettivi.
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