L’Italia ha deciso di non ratificare il Protocollo n. 16 alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, ma i pareri resi dalla Grande Camera continuano ad essere centrali nell’attività dei giudici. Con la sentenza n. 5198/21 depositata il 10 febbraio, la terza sezione penale della Corte di Cassazione ha stabilito che non è applicabile la legge italiana in materia penale quando, pur in presenza di un divieto sanzionato penalmente come nel caso di ricorso alla maternità surrogata all’estero, l’azione o l’omissione non sia realizzata “in tutto o in parte in Italia” e quando la parte di condotta commessa sul territorio italiano non sia significativa e collegabile a quella commessa all’estero (sentenza). Questi i fatti. Una coppia, costituita da un cittadino algerino e da un’italiana, aveva fatto ricorso alla maternità surrogata in Ucraina. Erano nati due gemelli che erano stati registrati in quel Paese con l’indicazione, come genitori, secondo le regole di quello Stato, della coppia che aveva poi chiesto la trascrizione dell’atto nei registri dello stato civile di un comune italiano. Era partita così un’indagine e il Tribunale di Pesaro aveva deciso che il reato era stato commesso all’estero e i contatti iniziali avviati in Italia con la clinica ucraina “erano da ritenersi al di fuori della fattispecie tipica”. Di qui l’impugnazione della Procura del Tribunale di Pesaro in Cassazione. Per la Suprema Corte, l’articolo 12, comma 6 della legge n. 40 del 2004 non è stato interpretato in modo errato, anche se il divieto a tecniche di procreazione medicalmente assistita di tipo eterologo resta sanzionato in Italia, a differenza di quanto avviene in altri ordinamenti. Ciò si evince anche dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 272/2017 e dall’attribuzione del margine di apprezzamento concesso agli Stati, come risulta anche dal parere della Grande Camera della Corte europea dei diritti dell’uomo del 10 aprile 2019 (http://www.marinacastellaneta.it/blog/la-cedu-deposita-il-primo-parere-in-attuazione-del-protocollo-n-16-echr-first-advisory-opinion-under-the-protocol-no-16.html), reso su richiesta della Corte di Cassazione francese. Strasburgo ha stabilito, infatti, che gli Stati possono adottare norme che scoraggino il ricorso a pratiche di maternità surrogata all’estero, pur essendo incompatibile con l’articolo 8 della Convenzione un divieto assoluto di riconoscimento dello status filiationis. Ad avviso della Suprema Corte, nel caso in esame, il Tribunale di Pesaro, sulla base di diversi elementi, ha ritenuto che il reato contestato fosse stato consumato integralmente all’estero. Sul punto, infatti, per la Cassazione, la legge italiana è applicabile solo se la condotta commessa in Italia “sia comunque significativa e collegabile in modo chiaro e univoco alla parte restante realizzata in territorio estero”. Non basta, però, “un generico proposito, privo di concretezza e specificità, di commettere all’estero fatti delittuosi”, e questo anche se detti reati vengano poi realizzati. Di conseguenza, per la Cassazione, l’interpretazione del Tribunale di Pesaro, il quale ha ritenuto che il reato contestato fosse stato consumato integralmente all’estero, sulla base di una serie di elementi, è stata corretta.
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