Stop alla consegna per l’esecuzione di un mandato di arresto europeo se c’è il rischio di trattamenti inumani o degradanti. E’ vero che il decreto legislativo n. 10 del 2 febbraio 2021, con il quale è stata modificata la legge n. 69/2005, di recepimento della decisione quadro n. 2002/584 (poi modificata dalla 2009/299/GAI), sul mandato di arresto europeo e le procedure di consegna tra Stati membri, non include più questo pericolo tra i motivi di rifiuto obbligatorio alla consegna, ma il suddetto motivo di rifiuto continua ad essere operativo. Lo ha chiarito la Corte di Cassazione, sesta sezione penale, con la sentenza n. 26643 depositata l’11 luglio 2022 con la quale la Suprema Corte ha anche considerato l’incidenza della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle sentenze della Corte di Strasburgo sull’interpretazione delle norme interne nell’applicazione del mandato di arresto europeo (mandato di arresto europeo). Questi i fatti. La Corte di appello di Perugia aveva dato il via libera alla consegna all’autorità giudiziaria della Romania di un cittadino rumeno per l’esecuzione della sentenza di condanna per reati di guida sotto l’influenza di alcol o di altre sostanze. Il destinatario del provvedimento ha impugnato la decisione dei giudici di appello in Cassazione sostenendo che non erano stati applicati correttamente gli articoli 2 (diritto alla vita) e 3 (divieto di trattamenti inumani o degradanti). Per la Suprema Corte, se è vero che il decreto legislativo n. 10/2021 ha eliminato il rischio di trattamenti inumani o degradanti tra i motivi di rifiuto obbligatorio, è anche vero che esso continua ad essere operante in virtù della clausola generale contenuta nell’articolo 2 della legge n. 69/2005, in base al quale l’esecuzione di un mandato di arresto non può mai determinare una violazione dei principi supremi dell’ordine costituzionale dello Stato o dei diritti inalienabili della persona, nonché dei principi sanciti nell’articolo 6 della Convenzione europea. Inoltre, l’articolo 16 della legge n. 69/2005 prevede che il giudice dello Stato di esecuzione richieda informazioni integrative per accertare se sussista un rischio sistemico di trattamenti inumani e degradanti. Già in passato, la Cassazione ha annullato una sentenza con la quale era stata disposta la consegna in Romania solo dopo l’acquisizione di informazioni aggiuntive sulla situazione delle condizioni detentive in quel Paese, proprio tenendo che il Consiglio d’Europa aveva individuato criticità evidenti nelle condizioni carcerarie. E la stessa Corte di giustizia dell’Unione europea – ricorda la Cassazione – ha stabilito che l’autorità giudiziaria dell’esecuzione debba disporre di “elementi oggettivi, attendibili, precisi e debitamente aggiornati” che attestino carenze sistemiche sullo stato di detenzione negli istituti penitenziari dello Stato membro emittente. Ad avviso della Cassazione la Corte di appello non ha svolto i necessari accertamenti sull’esistenza di carenze sistemiche in Romania e non ha tenuto conto della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo del 25 marzo 2021, nel caso Bivolaru e Moldovan contro Francia, con la quale Strasburgo ha accertato una violazione dell’articolo 3 da parte delle autorità francesi proprio per aver autorizzato la consegna senza richiedere informazioni sulle condizioni detentive del consegnando. Di qui l’annullamento della sentenza e il rinvio per un nuovo giudizio alla Corte di appello di Firenze.
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