Alto rischio di violazioni dei diritti umani. Non in un Paese extra-europeo, bensì in Italia. La Corte suprema inglese ha messo nero su bianco, in una sentenza che mette a nudo la situazione dei diritti umani più di quanto possano fare mille classifiche, che i richiedenti asilo non possono essere ricondotti in Italia malgrado, questo paese, come Stato di primo ingresso, dovrebbe essere competente nell’attribuzione dell’asilo in base al regolamento n. 343/2003 che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda d’asilo presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un paese terzo (il regolamento ha sostituito la Convenzione di Dublino). Alla Corte Suprema, che si è pronunciata con sentenza depositata il 19 febbraio (UKSC_2012_0272_Judgment), si sono rivolti 4 cittadini, tre eritrei e un iraniano che erano arrivati in Italia come richiedenti asilo. Qui, però, avevano subito gravi maltrattamenti, non avevano ricevuto nessun supporto, situazione che aveva condotto a traumi anche psicologici. Il Segretario di Stato inglese, nel corso dell’udienza, ha sostenuto che l’Italia si presume un Paese sicuro, tanto più che non si può parlare di violazione sistematiche. Nella stessa direzione si era espressa la Corte di appello ritenendo che, anche alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia dell’Unione europea, il rientro in uno Stato dovrebbe essere escluso solo in situazioni di violazioni sistematiche. Una tesi che la Suprema Corte non ha condiviso partendo dal presupposto che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo che all’articolo 3 vieta i trattamenti disumani e degradanti impedisce di ricondurre un individuo in un luogo in cui vi sia il rischio di detti trattamenti, senza richiedere che il pericolo sia imputabili a deficienze e violazioni sistematiche. A tal proposito, la Corte suprema, che ha ritenuto non corretta la lettura fatta dai giudici di secondo grado della giurisprudenza della Corte di giustizia Ue, ha anche sottolineato che l’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che vieta la tortura e i trattamenti disumani e degradanti, deve essere letto tenendo conto dell’articolo 3 della Convenzione europea, con la conseguenza che il rientro in uno Stato deve essere escluso in caso di rischi di violazione dei diritti umani, siano esse sistematiche o meno. Di conseguenza, la Corte suprema ha annullato la pronuncia della Corte di appello che aveva spianato la strada al ritorno in Italia e rimesso il caso al tribunale amministrativo competente che dovrà interpretare il regolamento Dublino alla luce della Carta dei diritti fondamentali e, quindi, anche della CEDU.
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