La libertà di religione non può essere limitata unicamente ai culti consentiti o tollerati dalle autorità di uno Stato perché un’ingerenza può considerasi legittima solo se prevista dalla legge, se proporzionale e solo se diretta a perseguire fini legittimi. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, prima sezione civile, con la sentenza n. 37368 depositata il 21 dicembre (religione). A rivolgersi alla Suprema Corte è stato un cittadino cinese, cristiano evangelico, che aveva chiesto il riconoscimento della protezione sussidiaria o della protezione umanitaria. L’uomo sosteneva che il Governo cinese aveva arrestato molti fedeli, sottoponendoli a tortura. La Corte di appello di Roma, sulla base di un rapporto sul Paese di origine del 2019 aveva evidenziato che, in effetti, la Chiesa evangelica era inclusa tra i culti “vietati o maligni” considerati in Cina illeciti perché segreti, ma aveva concluso che non sussisteva una situazione soggettiva di vulnerabilità e che l’uomo non era integrato in Italia. Una valutazione sbagliata – scrive la Cassazione – perché la libertà religiosa non può essere limitata ai soli culti consentiti o tollerati, perché uno Stato, anche in base alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, può limitarla ma solo se ciò è funzionale a perseguire fini legittimi, nel rispetto del parametro della proporzionalità. Non basta, quindi, vietare un credo sulla base di una presunta segretezza di un gruppo religioso perché vanno considerate le ragioni giustificative “del regime giuridico adottato alla luce dell’intero ordinamento giuridico del Paese di origine e del fondamento democratico o antidemocratico della struttura statuale”. Il credo religioso del ricorrente è penalmente perseguito in Cina, anche in modo brutale e con trattamenti detentivi inumani o degradanti: una premessa che porta a un’ovvia conclusione ossia che deve essere garantita la protezione in Italia perché le ragioni dell’ingerenza della Cina sono in contrasto con il diritto all’effettivo esercizio della libertà religiosa. La sola segretezza dell’associazione religiosa e il divieto di professare il proprio credo “costituiscono di per sé limiti illegittimi al diritto di libertà religiosa” ed è irrilevante che il sistema repressivo non sia stato esercitato direttamente nei confronti del richiedente protezione. Pertanto, la Cassazione ha concluso nel senso dell’esistenza di un errore nella valutazione dei giudici di merito che non hanno neanche considerato “il rischio concreto del richiedente di essere sottoposto, in caso di rimpatrio… a tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni della propria persona”. Spetta ora alla Corte di appello di Roma pronunciarsi nuovamente, in diversa composizione.
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