La sentenza n. 63 depositata dalla Corte costituzionale il 24 marzo con la quale è stata bocciata la legge della Regione Lombardia n. 12 dell’11 marzo 2005, modificata dalla n. 2/2015, sugli edifici di culto, mette in primo piano il rapporto tra libertà di religione e libero esercizio del culto religioso. La legge lombarda non supera il filtro della Corte costituzionale in particolare per la previsione di un regime diverso, da un lato, per la Chiesa cattolica e le confessioni religiose con intesa, e, dall’altro lato, per le confessioni che non hanno un’intesa con lo Stato. A chiamare in causa la Consulta, il Governo che ha impugnato la normativa regionale evidenziando otto motivi alla base del ricorso. Prima di tutto, la Corte costituzionale ha chiarito che il principio di laicità dello Stato non vuol dire indifferenza di fronte all’esperienza religiosa, ma salvaguardia della libertà di religione in regime di pluralismo confessionale e culturale. Detto questo, la Consulta ha precisato che il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale della libertà di religione da riconoscere a ogni individuo e, di conseguenza, l’apertura di luoghi di culto è condizione essenziale per l’esercizio della propria libertà di religione. Quello che non convince la Consulta è l’applicazione delle nuove regole fissate dalla legge regionale lombarda unicamente alle confessioni religiose senza intesa per le quali era richiesta la presenza “diffusa, organizzata e consistente a livello territoriale”, nonché un “significativo insediamento nell’ambito del comune nel quale vengono effettuati gli interventi”. Condizioni aggiuntive non richieste per le confessioni con intesa che, per di più comportano un limite al libero esercizio del culto che deve prescindere dalla stipulazione di un’intesa con lo Stato, con la consequenziale constatazione dell’illegittimità della legge per violazione del principio di uguaglianza nella libertà di religione e di culto e del divieto per la legge regionale di invadere le competenze statali circa i rapporti tra la Repubblica e le singole confessioni religiose. Va segnalato che la Corte costituzionale, invece, ha dichiarato inammissibili i motivi di ricorso fondati sulla violazione dell’articolo 117 della Costituzione. Secondo il Governo, i limiti imposti dalla legge lombarda risulterebbero in contrasto con gli articoli 10, 17 e 19 del Trattato sull’Unione europea che impegna l’Unione a lottare contro le discriminazioni religiose nell’elaborazione e nell’attuazione delle politiche europee. Inoltre, per il Governo sussisterebbe un contrasto con la Carta dei diritti fondamentali e, in particolare con gli articoli 10, 21 e 22 che assicurano la libertà di religione, la diversità e il divieto di discriminazioni, nonché con l’articolo 18 del Patto sui diritti civili e politici del 1966. La Corte costituzionale non è entrata nel merito considerando inammissibile, sotto questi profili, il ricorso perché non sono stati indicati con chiarezza i contenuti della normativa regionale ritenuti incompatibili con i principi internazionali ed europei. Tra l’altro, con riferimento alla Carta dei diritti fondamentali Ue, la Consulta ha ribadito che in base all’articolo 51 della stessa Carta le disposizioni di tale atto sono applicabili solo allorquando gli Stati membri agiscono nell’ambito di attuazione del diritto dell’Unione.
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