Non basta invocare il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza per evitare una condanna a Strasburgo. E’ la conclusione raggiunta dalla Grande Camera nella sentenza Nada contro Svizzera (ricorso n. 10593/08, CASE OF NADA v SWITZERLAND) con la quale il massimo organo giurisdizionale della Corte europea dei diritti dell’uomo ha accertato la violazione dell’articolo 8 e dell’articolo 13 della Convenzione da parte della Svizzera. A Strasburgo si era rivolto un cittadino italiano e svizzero che era stato incluso, con una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, in una blacklist. I suoi beni furono sequestrati e la Svizzera emise un provvedimento che proibiva il transito e l’ingresso in Svizzera, impedendogli così di muoversi da Campione. Le indagini sul conto del ricorrente furono archiviate sia in Svizzera che in Italia. Di conseguenza, l’uomo chiese alle autorità elvetiche di cancellarlo dalla lista, ma ottenne un netto rifiuto sul presupposto che non era possibile derogare, in base all’articolo 25 della Carta ONU, ad una decisione del Consiglio di sicurezza. Intanto l’Italia aveva presentato, nel 2008, una richiesta al Comitato delle sanzioni Onu per cancellare il ricorrente dalla blacklist, ma l’istanza era stata respinta. Solo nel 2009, a seguito della presentazione di una richiesta del ricorrente, il Comitato ha accolto l’istanza.
Evidente la violazione, da parte della Svizzera, dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, che riconosce il diritto al rispetto della vita privata e familiare. E’ vero che la lotta al terrorismo è un obiettivo di particolare rilievo, ma essa non può essere condotta in contrasto con i diritti umani. Inoltre, ogni restrizione a una libertà di un individuo deve essere fondata e deve essere dimostrata la sua necessità in modo convincente. Non è stato il caso della Svizzera che – precisa la Corte – ha informato il Comitato delle sanzioni Onu della chiusura delle indagini a carico del ricorrente solo nel 2009, ben quattro anni dopo l’effettiva archiviazione avvenuta nel 2005. Non è stato sufficiente indicare alla vittima della violazione che avrebbe potuto rivolgersi al Comitato delle sanzioni senza fornirgli alcuna assistenza. Né basta invocare il rispetto delle risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu perché la Svizzera avrebbe potuto applicare la risoluzione in modo meno duro l’atto, adottando ogni misura possibile per conciliare il regime sanzionatorio con la particolare situazione del ricorrente. A ciò si aggiunga che la Svizzera ha mancato di armonizzare gli obblighi internazionali ritenuti contraddittori. Di qui la violazione dell’articolo 8 della Convenzione. Non solo. Le autorità elvetiche non hanno messo a disposizione alcuno strumento giurisdizionale per valutare la situazione della vittima: lo stesso ricorso presentato alla Corte federale è stato respinto invocando l’impossibilità per le autorità nazionali di decidere su comportamenti richiesti dal Consiglio Onu. Violato, così, anche l’articolo 13 che impone agli Stati la predisposizioni di misure giurisdizionali effettive per la tutela dei diritti.
La Grande Camera non ha ritenuto necessario analizzare la questione dei rapporti tra Convenzione europea dei diritti dell’uomo e risoluzioni del Consiglio di sicurezza poiché la Svizzera aveva violato la Convenzione non dimostrando di aver adottato tutte le misure necessarie a considerare la situazione del ricorrente. Una conclusione che, in ogni caso, fa capire chiaramente che gli Stati non possono abdicare al rispetto dei diritti umani. Neanche se lo dice l’ONU.
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