Legittima la clausola della cittadinanza per i concorsi pubblici

La previsione del requisito della cittadinanza per l’accesso al pubblico impiego e l’esclusione di cittadini extra-Ue da alcuni concorsi pubblici sono legittimi. Il legislatore può decidere di mantenere la condizione della cittadinanza italiana o di uno Stato membro dell’Unione per il pubblico impiego senza che ciò costituisca una violazione della normativa sopranazionale, delle regole Ue e dei principi costituzionali. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, sezione lavoro, con la sentenza n. 18523/14 depositata il 2 settembre (concorsi pubblici) che ha escluso l’esistenza di un principio generale di ammissione dello straniero non comunitario al lavoro pubblico. A rivolgersi alla Suprema Corte è stata una cittadina albanese, regolarmente soggiornante in Italia e invalida civile. Il Ministero dell’economia aveva indetto un concorso per l’assunzione di lavoratori invalidi a tempo indeterminato riservando, però, la partecipazione ai cittadini italiani e comunitari. La donna aveva presentato ricorso, che era stato respinto. Di qui l’azione in Cassazione che le ha dato torto. Prima di tutto, osserva la Cassazione, malgrado l’evoluzione sociale e “l’omogeneizzazione ai fini giuridici delle etnie e cittadinanze”, il legislatore italiano ha introdotto e mantenuto nel corso degli anni il requisito della cittadinanza italiana o di un Paese Ue (con limitate esclusioni) per l’accesso al pubblico impiego. Una scelta politica, quella di mantenere il requisito della cittadinanza, mai abrogata e conforme alla Costituzione. Non solo. Per la Cassazione è da escludere anche un contrasto con norme Ue e con il diritto internazionale. Sotto il primo profilo, in linea con le direttive 2004/38, 2004/83 e 2003/109, l’Italia, nel corso degli anni, ha ampliato l’accesso al pubblico impiego per determinate categorie di cittadini extracomunitari come i rifugiati, i titolari del permesso di soggiorno Ue per soggiornanti di lungo periodo o della protezione sussidiaria. La normativa Ue stabilisce l’obbligo di equiparazione con i cittadini dell’Unione solo per specifiche categorie, confermando così la possibilità di escludere altri cittadini extra Ue. Senza dimenticare le specificità dell’accesso al pubblico impiego in ragione della “particolarità e delicatezza della funzione svolta alle dipendenze dello Stato”, presa in considerazione anche nell’Unione europea che ne riconosce, a determinate condizioni, le peculiarità.

Escluso il contrasto anche con le fonti internazionali come la Convenzione dell’Organizzazione internazionale del lavoro n. 143 del 1975, ratificata dall’Italia con legge n. 158 del 1981. E’ vero che è assicurata parità di trattamento e piena uguaglianza tra lavoratori stranieri regolarmente soggiornanti sul territorio ma, indicando in modo espresso i lavoratori  e quindi soggetti già occupati, la regola non è estesa alle questioni relative alle condizioni di accesso al lavoro. In ultimo, la Cassazione ha escluso anche il contrasto con il divieto di trattamenti discriminatori e con la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall’Italia con legge 3 marzo 2009 n. 18 perché l’esclusione della ricorrente non è stata basata sulla sua disabilità, che era per di più requisito di ammissione, ma sulla mancanza della cittadinanza italiana o di un Paese Ue.

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