Il divieto di contemporaneo esercizio della professione forense per i dipendenti pubblici con rapporto di lavoro a tempo parziale non è in contrasto con il diritto Ue. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 2 dicembre 2010 (causa C-225/09, Jakubowska, http://curia.europa.eu/jurisp/cgi-bin/form.pl?lang=it&jurcdj=jurcdj&newform=newform&docj=docj&docop=docop&docnoj=docnoj&typeord=ALLTYP&numaff=&ddatefs=30&mdatefs=11&ydatefs=2010&ddatefe=7&mdatefe=12&ydatefe=2010&nomusuel=&domaine=), con la quale i giudici di Lussemburgo hanno salvato la legislazione italiana che vieta ai dipendenti pubblici part-time di svolgere contemporaneamente la professione di avvocato, ritenendo legittima la cancellazione dall’albo di due avvocati che avevano accettato incarichi professionali, seppure prima dell’entrata in vigore che ne fissava il divieto. Al centro della pronuncia, la legge n. 339/2003 sull’incompatibilità dell’esercizio della professione di avvocato che ha modificato la n. 662/1996 che consentiva ai dipendenti part-time di svolgere la libera professione. Un diritto cancellato con la legge n. 339 che ha fissato un divieto generale, lasciando agli avvocati un certo margine di tempo per comunicare la scelta all’ordine professionale. Un meccanismo che ha di fatto superato il vaglio di Lussemburgo anche perché la direttiva 98/5 che facilita l’esercizio della professione di avvocato (recepita in Italia con Dlgs n. 96/2001) armonizza in modo completo i requisiti preliminari per l’iscrizione nello Stato membro ospitante, ma lascia gli Stati liberi nella determinazione delle regole deontologiche e professionali. Questo vuol dire che un Paese membro è libero di precludere l’esercizio della professione a coloro che svolgono un lavoro, anche a tempo parziale, come dipendenti pubblici. Di conseguenza, anche gli avvocati stabiliti in Italia, saranno tenuti a rispettare tale regola, per non rischiare la cancellazione. D’altra parte – precisa Lussemburgo – l’autonomia concessa agli Stati dalla direttiva che, in questo settore, accantona l’armonizzazione, è dovuta alla volontà di lasciare alle autorità nazionali l’individuazione degli strumenti utili a evitare conflitti di interesse. Un obiettivo centrale per fare in modo che gli «avvocati si trovino in una situazione di indipendenza nei confronti dei pubblici poteri e degli altri operatori di cui non devono subire l’influenza». Unico limite: garantire il principio di proporzionalità.
Intanto, con ordinanza interlocutoria n. 24689/10 depositata il 6 dicembre, la Corte di cassazione, sezioni unite civili, ha accolto l’istanza di alcuni avvocati, dipendenti part-time che avevano chiesto la sospensione dell’efficacia delle decisioni del Consiglio nazionale forense riguardanti la cancellazione dall’Albo, chiedendo alla Corte costituzionale di verificare l’eventuale contrasto tra alcune disposizioni della legge n. 339/2003 con gli articoli 3, 4, 35 e 41 della Costituzione. Respinte invece le questioni riguardanti i rapporti con il diritto Ue.
L’ordinanza sarà pubblicata sul prossimo numero di guida al diritto.
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