Il diritto di un giornalista a non svelare la fonte non è un privilegio da concedere o ritirare a seconda della liceità o meno della fonte, ma è un elemento essenziale della libertà di espressione che non deve essere compresso per non incorrere in una violazione della Convenzione dei diritti dell’uomo. Lo ha ribadito la Corte europea nella sentenza Nagla contro Lettonia depositata ieri (ricorso n. 73469/10, CASE OF NAGLA v. LATVIA). Una giornalista di una televisione nazionale aveva trasmesso un servizio riportando notizie acquisite da una fonte anonima sui “buchi” nel database contenente i salari e le dichiarazioni dei redditi di funzionari e dipendenti pubblici. Non solo. La reporter aveva anche svelato, proprio in un periodo di crisi e tagli, gli alti compensi di dipendenti, manager e amministratori del settore pubblico. A seguito dell’apertura di un’inchiesta, la donna si era rifiutata di svelare la propria fonte che le aveva trasmesso le notizie sotto la garanzia dell’anonimato. Di qui le perquisizioni nell’abitazione della donna, il sequestro di un laptop, di hard disk esterni, chiavette usb e altro. In pratica, una “pesca a strascico” che aveva compromesso il lavoro della giornalista. Le autorità inquirenti avevano però ottenuto il proprio scopo ossia individuare la fonte. La donna si era così rivolta a Strasburgo visto che sul piano interno i giudici nazionali avevano ritenuto che la reporter avesse l’obbligo di indicare colui che, presumibilmente, aveva commesso un illecito, svelando dati riservati. Di diverso avviso la Corte europea che ha condannato la Lettonia per violazione dell’articolo 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo che assicura il diritto alla libertà di espressione. Prima di tutto – ha osservato Strasburgo – i giudici nazionali devono tener conto che la tutela delle fonti è un elemento essenziale della professione giornalistica e della libertà di espressione che è un diritto doppio perché include anche il diritto della collettività a ricevere informazioni su questioni scottanti di interesse pubblico. Se le autorità inquirenti effettuano perquisizioni nella casa e nella redazione del giornalista è evidente che compromettono il lavoro del reporter e quindi il suo diritto alla libertà di espressione e anche quello di ogni individuo a ricevere informazioni. Nessun dubbio sull’interesse pubblico della collettività a conoscere gli stipendi di dipendenti pubblici e questo soprattutto in periodi di crisi durante i quali sono richiesti sacrifici. Nel caso in esame, poi, i provvedimenti delle autorità inquirenti erano stati adottati senza tener conto delle conseguenze che avrebbero avuto sul diritto alla libertà di espressione garantito dalla Convenzione. Di qui la condanna alla Lettonia e l’obbligo dello Stato di versare alla giornalista 10.000 euro per i danni non patrimoniali e identica cifra per le spese processuali sostenute.
http://www.marinacastellaneta.it/blog/la-corte-europea-guida-la-cassazione-nel-rafforzare-la-liberta-di-stampa.html e http://www.marinacastellaneta.it/blog/protezione-delle-fonti-dei-giornalisti-rafforzata-a-strasburgo.html
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