Le condizioni climatiche nel Paese di origine devono essere valutate per la protezione internazionale

Il rischio di privazione della titolarità dell’esercizio dei diritti umani deve essere considerato anche in relazione alle condizioni climatiche che possono incidere sul diritto alla salute. Di conseguenza, va accolto il ricorso di un cittadino del Bangladesh a seguito del no opposto dalla Commissione territoriale alla sua richiesta di protezione internazionale. Per la Corte di Cassazione, terza sezione civile, che si è pronunciata con la sentenza n. 25143/20 del 10 novembre 2020 (25143), la pronuncia del Tribunale di Caltanissetta, che aveva confermato la decisione della Commissione territoriale, non era stata adeguatamente motivata in particolare perché il diniego di protezione umanitaria non aveva tenuto conto della particolare vulnerabilità dovuta alla “condizione di povertà inemendabile, determinata dalle condizioni climatiche del Paese di origine alle quali la domanda di protezione umanitaria è riferita”. Invece, per la Corte di Cassazione, il giudice di merito deve tener conto della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine e verificare quali conseguenze potrebbe avere il rimpatrio sull’esercizio del diritti umani. Inoltre, per la Suprema Corte deve essere sempre salvaguardato un nucleo ineliminabile e costitutivo della dignità personale nel quale vanno ricomprese le condizioni climatiche, in rapporto al diritto fondamentale alla salute. E’ poi indispensabile procedere, in linea con l’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (diritto al rispetto della vita privata e familiare), a valutare il grado d’integrazione effettiva nel nostro Paese e la situazione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese di origine. 

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