No agli ostacoli al diritto di soggiorno per il partner dello stesso sesso di un cittadino Ue, dovuti alla circostanza che lo Stato membro non riconosce il matrimonio tra persone same sex. Lo scrive l’Avvocato generale Wathelet nelle conclusioni depositate l’11 gennaio 2018 nella causa C-673/16 (C-673:16), con le quali l’Avvocato generale ha proceduto a una lettura guidata dalla Carta dei diritti fondamentali e dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo della nozione di coniuge nei casi in cui va applicata la direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri. E’ stata la Corte costituzionale rumena a chiamare in aiuto Lussemburgo. Al centro della controversia nazionale la richiesta di un cittadino rumeno che si era sposato a Bruxelles, dove lavorava, con un partner dello stesso sesso, cittadino statunitense. L’uomo aveva chiesto alle autorità rumene, in applicazione della direttiva 2004/38, di ottenere i documenti necessari perché il suo coniuge potesse lavorare in Romania per un periodo superiore a tre mesi. L’ispettorato generale per l’immigrazione aveva respinto l’istanza. Di qui l’azione giurisdizionale che è arrivata fino alla Corte costituzionale e poi a Lussemburgo.
Prima di tutto, l’Avvocato generale ha chiarito che la direttiva non effettua alcun rinvio al diritto interno e, quindi, la nozione di coniuge va ricostruita tenendo conto del diritto Ue e, in particolare, del principio della libera circolazione dei cittadini dell’Unione. Dalla direttiva risulta con chiarezza che la nozione fissata nell’atto Ue “prescinde dal sesso della persona sposata”. E’ vero – prosegue Wathelet – che gli Stati “sono liberi di prevedere o meno il matrimonio per persone del medesimo sesso nel proprio ordinamento giuridico interno” ma, di fatto, questa libertà incontra un limite nell’applicazione del diritto Ue. Di conseguenza, con riferimento alla direttiva, la nozione di coniuge include anche le persone dello stesso sesso perché è neutra “dal punto di vista del genere e indifferente al luogo in cui il matrimonio è stato contratto”. A ciò si aggiunga che il diritto dell’Unione deve essere interpretato alla luce della realtà contemporanea e non può essere isolato dai mutamenti sociali, situazione che spinge l’Avvocato generale ad affermare che non si può più ritenere che la definizione di matrimonio comunemente accolta dagli Stati membri sia riferita unicamente a persone di sesso diverso. Accertato che la nozione di coniuge, per l’applicazione della direttiva 2004/38, è indipendente dal sesso, lo Stato membro è tenuto a riconoscere al coniuge dello stesso sesso, che accompagna il cittadino dell’Unione nel territorio di un altro Stato membro, un permesso di soggiorno superiore a tre mesi. Adesso la parola passa alla Corte.
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