Nessun test psicologico per l’accertamento dell’orientamento sessuale del richiedente asilo. E’ la Corte di giustizia dell’Unione europea ad affermarlo con la sentenza depositata il 25 gennaio nella causa C-473/16 (C-473:16) che pone un freno all’utilizzo di perizie che violano il diritto al rispetto della vita privata garantito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
E’ stato il Tribunale amministrativo e del lavoro di Szeged, Ungheria, a sottoporre la questione pregiudiziale sull’interpretazione dell’articolo 4 della direttiva 2011/95/UE del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta. La vicenda nazionale riguardava un cittadino nigeriano che aveva presentato alle autorità ungheresi una domanda di asilo in ragione del rischio di persecuzione nel suo Paese a causa della sua omosessualità. La domanda era stata respinta sulla base di una perizia psicologica che non aveva confermato il suo orientamento sessuale. Il richiedente sosteneva che vi fosse stata una violazione dei suoi diritti fondamentali e, così, aveva impugnato il provvedimento di diniego dinanzi ai giudici amministrativi ungheresi che, prima di decidere, hanno chiesto aiuto agli eurogiudici. Per la Corte è vero che la direttiva permette alle autorità nazionali competenti di avvalersi di una perizia, ma questo solo nel rispetto del diritto alla dignità umana e del diritto alla vita privata e familiare assicurati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In ogni caso – osserva la Corte – la decisione degli organi nazionali competenti non può essere fondata esclusivamente sulle conclusioni contenute nella relazione peritale. A ciò si aggiunga che la circostanza che il diritto interno assoggetti la perizia al consenso dell’interessato non costituisce un’adeguata garanzia considerato che il richiedente è sottoposto a pressioni legate alla sua situazione e, quindi, difficilmente opporrà un no alla richiesta delle autorità nazionali. In ultimo, ad avviso di Lussemburgo, la perizia psicologica non è indispensabile a determinare l’orientamento sessuale del richiedente ed è un’ingerenza sproporzionata rispetto all’obiettivo perseguito. Per la Corte, infatti, l’articolo 4 della direttiva 2011/95, letto alla luce dell’articolo 7 della Carta, dev’essere interpretato “nel senso che osta all’esecuzione e all’utilizzo, al fine di valutare la veridicità dell’orientamento sessuale dichiarato da un richiedente protezione internazionale, di una perizia psicologica, come quella oggetto del procedimento principale, che ha per scopo, sulla base di test proiettivi della personalità, di fornire un’immagine dell’orientamento sessuale di tale richiedente”.
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