Le espressioni violente che invocano in modo cruento e plateale l’applicazione della pena capitale, riportate in alcuni manifesti, non sono ex se attività discriminatoria e, quindi, i giudici di appello, prima di procedere alla condanna per istigazione all’odio razziale in base alla legge n. 654/1975, come modificata in varie occasioni, che ha dato esecuzione alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale adottata il 21 dicembre 1965, devono procedere a un’adeguata ricostruzione della vicenda e a indicare come quella manifestazione di odio comporti un concreto pericolo di comportamenti discriminatori. E’ la Corte di Cassazione a stabilirlo con la sentenza n. 1602/20 depositata il 16 gennaio 2020 (1602) con la quale è stata annullata, con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Milano, la pronuncia che aveva portato alla condanna di due cittadini italiani i quali avevano esposto su un camion pubblicitario un manifesto con il messaggio “clandestino uccide tre italiani a picconate – pena di morte subito”, con l’aggiunta di una ghigliottina con una lama grondante di sangue e l’immagine della testa di un uomo di colore decapitato. In primo e secondo grado i due uomini erano stati condannati per aver propagandato idee fondate sull’odio razziale. La Cassazione, I sezione penale, ha annullato la decisione della Corte di appello. Ricostruita la normativa sulla diffusione di idee basate sull’odio razziale, con particolare riguardo alla Convenzione internazionale sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, la Suprema Corte ha rilevato che per l’interpretazione degli elementi normativi presenti nell’articolo 3 della legge n. 654/1975 si deve tener conto del contesto in cui si colloca la singola condotta “in modo da assicurare il contemperamento dei principi di pari dignità e di non discriminazione con quello di libertà di espressione”, accertando la concreta pericolosità del fatto. La Corte di appello aveva ritenuto la propaganda discriminatoria, proprio in ragione della contrapposizione tra “clandestino”, di pelle nera, e gli italiani, anche in connessione all’esibizione di una ghigliottina con la testa decapitata di un uomo. Tuttavia, per la Cassazione “il percorso logico giuridico compiuto dai giudici di merito è errato perché muove dal presupposto, rimasto indimostrato” che le espressioni riportate nei manifesti “costituiscono ex se attività discriminatoria”. Oltre a un’adeguata ricostruzione della vicenda, la Cassazione ritiene che i giudici di appello avrebbero dovuto dimostrare che l’odio razziale o etnico fosse integrato “da un sentimento idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, idoneità che nel caso di specie non è stata in alcun modo indagata dai giudici di merito e che viene, anzi, di fatto presunta in base alla circostanza dell’esposizione al pubblico del manifesto pubblicitario”. Adesso la parola torna alla Corte di appello. Resta da vedere se la pronuncia della Cassazione sia in linea con l’articolo 4 della Convenzione del 1965 e, in particolare, con le Osservazioni generali presentate nel 2013 dal Comitato Onu sul monitoraggio della Convenzione, che ha anche chiesto di tenere conto, nel valutare l’odio razziale, del clima economico, sociale e politico nel momento in cui un’idea viene diffusa.
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