Applicare la sharia in una successione, malgrado il de cuius abbia fatto testamento, nominando come erede la moglie, è una violazione del principio di non discriminazione la cui tutela è garantita dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (articolo 14). Lo ha stabilito la Grande Camera della Corte di Strasburgo con la sentenza depositata il 19 dicembre nel caso Molla Sali contro Grecia (ricorso n. 20452/14, MOLLA SALI v. GREECE) che è costata allo Stato in causa una condanna. A ricorrere alla Corte europea era stata una donna, nominata come erede universale nel testamento redatto da un notaio per volontà del marito. La coppia era di religione musulmana e, per le autorità nazionali, che si erano pronunciate a seguito del ricorso di due sorelle del de cuius, questo comportava l’applicazione della sharia, con la conseguenza che la donna era stata privata dei 3/4 della sua eredità. Questo perché, malgrado il marito avesse scelto come legge applicabile quella greca, in base alle regole dell’ordinamento interno, il testamento non poteva produrre effetto perché alla minoranza musulmana doveva essere applicata la sharia. Un trattamento discriminatorio, ad avviso della donna, che si è rivolta alla Corte europea. La differenza di trattamento prevista nell’ordinamento greco per la minoranza di religione musulmana era prevista dalla legge ma, secondo la Grande Camera, non aveva alcuna giustificazione. E, d’altra parte, a partire dal 15 gennaio 2018, è entrata in vigore, in Grecia, una legge che vieta il ricorso alla sharia in materia familiare, salvo nei casi in cui tutte le parti siano d’accordo. Strasburgo ha anche respinto la tesi del Governo in causa secondo il quale l’applicazione della sharia alla minoranza musulmana andava inquadrata nell’obbligo internazionale di tutelare le minoranze: tesi suggestiva, ma respinta dalla Corte che privilegia il rispetto del diritto fondamentale a non essere discriminati. Così, secondo la Corte, anche quando uno Stato adotta norme ad hoc per una minoranza religiosa, le autorità nazionali devono accertare che l’applicazione non avvenga in modo discriminatorio. A ciò si aggiunga che, in base alle norme greche, il testatore musulmano non aveva potuto scegliere di applicare una legge diversa rispetto alla sharia perché, pur avendo indicato nel testamento la legge greca, detta legge non era stata applicata. Una simile restrizione non trova spazio in altri ordinamenti di Paesi che hanno ratificato la Convenzione europea e che rispettano le minoranze, tanto più che la preclusione alla scelta di legge produce un effetto paradossale perché conduce a un risultato – quello di privare la moglie dell’eredità – che né il de cuius né l’erede volevano. Non solo. La preclusione alla possibilità di optare per una legge diversa dalla sharia, decisa per la sola minoranza musulmana, è non solo una discriminazione, ma anche una violazione di un principio d’importanza fondamentale nell’ambito della protezione delle minoranze perché impedisce l’esercizio del diritto di non essere trattato come minoranza. D’altra parte, l’articolo 3 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla protezione delle minoranze sancisce che nessun svantaggio può derivare dalla sola circostanza di appartenere a una minoranza. Di qui la violazione dell’articolo 14 sul divieto di non discriminazione e dell’articolo 1 del Protocollo n. 1 sul diritto di proprietà. La Corte si è riservata di decidere sull’indennizzo da corrispondere alla ricorrente.
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