La condanna per l’attività come mercenario nel conflitto armato nel Donbass è stata giusta perché l’imputato era effettivamente un mercenario. Lo ha confermato la Corte di Cassazione, prima sezione penale, con la sentenza n. 24753 depositata il 21 giugno (24753). La Corte di appello di Genova aveva accertato la colpevolezza dell’imputato ritenendo che avesse violato l’articolo 3 della legge 12 maggio 1995 n. 210 di ratifica ed esecuzione della Convenzione internazionale contro il reclutamento, l’utilizzazione, il finanziamento e l’istruzione di mercenari adottata dalle Nazioni Unite il 4 dicembre 1989, in base al quale “chiunque, avendo ricevuto un corrispettivo economico o altra utilità o avendone accettato la promessa, combatte in un conflitto armato nel territorio comunque controllato da uno Stato estero di cui non sia né cittadino né stabilmente residente, senza far parte delle forze armate di una delle Parti del conflitto o essere inviato in missione ufficiale quale appartenente alle forze armate di uno Stato estraneo al conflitto, è punito, se il fatto non costituisce più grave reato, con la reclusione da due a sette anni”. In primo luogo, la Suprema Corte ha osservato che sussisteva la giurisdizione del giudice italiano in ragione del fatto che l’ingaggio dell’imputato era avvenuto in Italia, luogo di inizio dell’attività criminosa ai sensi dell’articolo 6 del codice penale, mentre è irrilevante che un procedimento penale fosse stato aperto anche in Ucraina, senza peraltro essere concluso. Inoltre, sempre sul fronte della giurisdizione, la Cassazione ha escluso che vi fosse una competenza della Corte penale internazionale anche in ragione della corretta applicazione del principio di complementarità.
Per quanto riguarda la qualifica di mercenario, la Corte ha osservato che la valutazione dei giudici di appello è stata corretta perché la partecipazione dell’imputato al conflitto in corso, con l’inserimento organico nella formazione armata Rusich, non è stata contestata e la natura mercenaria è risultata da una telefonata intercettata con la quale l’uomo aveva riferito alla madre “di vivere con lo stipendio del comandante”. Il condannato, però, riteneva che i giudici di appello non avessero applicato in modo corretto lo statuto internazionale del mercenario anche perché, a suo dire, egli avrebbe svolto l’attività senza alcun compenso, con la conseguenza che mancava un elemento essenziale per configurare la condotta di mercenario, ossia la percezione di un corrispettivo. Ricostruito il quadro in cui è stata adottata la Convenzione sui mercenari, la Corte ha osservato che tale atto fornisce la nozione di mercenario che è colui che viene reclutato per combattere in un conflitto armato dietro la promessa di un vantaggio economico. Per essere considerato mercenario l’individuo non deve essere cittadino di uno dei Paesi in conflitto, né deve risiedere in un territorio controllato da quel Paese; non deve fare parte delle forze armate regolari delle parti belligeranti e non deve essere stato inviato in tale veste da un Paese terzo. In base alla Convenzione, gli Stati parti sono tenuti a inserire la fattispecie come reato e sono tenuti a punire gli autori di tale illecito. Il legislatore italiano ha agito in questa direzione pur ampliando la fattispecie poiché non ha imposto, come requisito, che la remunerazione del mercenario sia nettamente superiore rispetto a quella dei combattenti regolari, con la conseguenza – precisa la Cassazione – che la norma interna è più rigorosa di quella convenzionale. D’altra parte, con l’articolo 3 della legge n. 210/1995, il legislatore non si è limitato a effettuare una trasposizione interna delle definizioni contenute nelle Convenzioni di Ginevra sulla protezione delle vittime nei conflitti armati internazionali e di New York, perché, nel rafforzamento di un’ottica punitiva, ha voluto ricomprendere ogni prestazione di tipo bellico svolta in un territorio straniero e per interesse economico. Tale ampliamento non comporta alcuna violazione degli obblighi internazionali tanto più che il legislatore italiano, in base all’articolo 117 della Costituzione, è tenuto a non legiferare in contrasto con gli obblighi internazionali, situazione che non si è certo verificata con l’introduzione di una norma volta ad ampliare le fattispecie punitive. L’intervento del legislatore italiano è poi in linea rispetto all’obiettivo della Convenzione che è quello di “contenere l’estendersi del fenomeno del mercenariato, ritenuto contrario ai valori della pace e agli interessi della comunità internazionale”. Va tenuto presente, inoltre, che la delimitazione, in termini più circoscritti, della natura del fenomeno, che la Convenzione opera, si iscrive nell’ottica di conciliare le posizioni, ma si deve escludere “che una disciplina nazionale sul punto più avanzata che ne sanzioni in forma più rigorosa le manifestazioni sia contraria allo spirito del Trattato e ne costituisca un’attuazione non consentita”. Senza dimenticare che la politica criminale “è terreno di tradizionale monopolio degli Stati e le relative scelte sono eccepibili, a cospetto dell’ordinamento internazionale, solo se contrastanti con le sue regole generalmente riconosciute o con pattuizioni che specificamente ne vincolino e limitino l’operato, non rinvenibili, le une e le altre, queste ultime con specifico riferimento alla Convenzione Onu, nella materia che ci occupa”. Per quanto riguarda la Convenzione di Ginevra e, in particolare il Primo Protocollo, la Corte precisa che essa ha la funzione prioritaria di proteggere le vittime “rimanendo estranea la disciplina penale delle condotte in vario modo connesse all’impiego in guerra di truppe assoldate”, senza incidere sulla fattispecie penale prevista nell’ordinamento italiano. Respinto così il ricorso dell’uomo e confermata la condanna.
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