Immunità della Santa Sede: prima pronuncia della CEDU sul Vaticano

La Corte europea dei diritti dell’uomo è intervenuta nuovamente su una questione incentrata sul diritto di agire in giudizio e la regola dell’immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile, precisando, ancora una volta, che le norme convenzionali devono essere interpretate tenendo conto delle altre regole presenti nell’ordinamento internazionale, del quale la Convenzione è parte integrante. Con la sentenza depositata il 12 ottobre nella causa J.C. e altri contro Belgio (ricorso n. 11625/17, AFFAIRE J.C. ET AUTRES c. BELGIQUE), la Corte di Strasburgo ha dato ragione al Belgio i cui tribunali avevano respinto il ricorso di alcuni cittadini francesi, belgi e olandesi che, quando erano bambini, erano stati vittime di abusi sessuali  commessi da preti cattolici e che si erano rivolti ai tribunali belgi per ottenere un indennizzo. La scelta di chiamare in causa il Vaticano era stata basata sul fatto che i presunti abusi sessuali (alcune azioni penali si erano prescritte) erano stati commessi da preti della Chiesa cattolica e che i vertici della stessa Chiesa non avevano adottato le misure volte a prevenire e punire gli autori di tali abusi. I tribunali belgi avevano respinto le richieste ritenendo che il Vaticano, in quanto Stato sovrano, godeva dell’immunità dalla giurisdizione in base al diritto internazionale. I ricorrenti si sono così rivolti a Strasburgo sostenendo di avere subito una violazione dell’articolo 6, par. 1 della Convenzione europea che riconosce il diritto di accesso alla giustizia. 

Per la Corte europea, i giudici di Ghent, considerato che il Vaticano è uno Stato sovrano ai sensi del diritto internazionale, hanno deciso tenendo conto della regola consuetudinaria in materia di immunità che – scrivono i giudici internazionali – serve anche ad assicurare le buone relazioni tra Stati sovrani. Tale regola ha natura consuetudinaria ed è altresì affermata nell’articolo 5 della Convenzione delle Nazioni Unite sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro beni (2 dicembre 2004) e nell’articolo 15 della Convenzione europea sull’immunità degli Stati (Consiglio d’Europa, 16 maggio 1972). Inoltre, – osserva Strasburgo – la concessione dell’immunità non deve essere considerata come una limitazione di un diritto sostanziale, ma come un ostacolo procedurale alla competenza dei giudici nazionali. Quest’ostacolo perseguiva un fine legittimo come il rispetto della sovranità statale e le buone relazioni tra Stati e non è stato applicato in modo tale da costituire una restrizione sproporzionata rispetto al diritto di agire in tribunale, che ammette alcune limitazioni. Riguardo poi alla qualificazione degli atti tra quelli iure imperii, Strasburgo ritiene che i giudici belgi hanno considerato l’esercizio di poteri amministrativi della Santa Sede come atti in cui si manifesta l’azione del potere sovrano dello Stato estero e che l’approccio seguito dal Belgio è stato conforme alla pronuncia della Corte internazionale di giustizia nel caso Germania contro Italia. Esclusa poi la tesi dei ricorrenti secondo i quali in caso di trattamenti disumani e degradanti e di violazione di norme di ius cogens, l’immunità non opererebbe. La Corte europea, infatti, ha ribadito che già in passato ha avuto modo di chiarire che, allo stato attuale, in base al diritto consuetudinario, non si è formata un’eccezione in questo senso. Né è applicabile l’eccezione alla regola dell’immunità fissata dall’articolo 12 della Convenzione ONU che, secondo Strasburgo, ha uno spazio limitato di attuazione al caso in cui l’autore dell’atto o dell’omissione si trovi nel territorio dello Stato in cui è stato commesso l’illecito. Così non era nella vicenda al centro del ricorso perché il luogo dell’evento era il Belgio e non la Santa Sede. 

Di conseguenza, per Strasburgo, non si è verificata una violazione dell’articolo 6 della Convenzione dei diritti dell’uomo.

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