Immunità dei familiari di agenti diplomatici e giusto processo in una sentenza della Corte di Strasburgo

L’accertamento dell’immunità riconosciuta in base al diritto internazionale deve avvenire in tempi rapidi. In caso contrario si verifica una violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto ad avere un processo equo. Lo ha stabilito la Corte di Strasburgo con la sentenza depositata il 5 novembre nel caso Zahariev contro Macedonia del Nord (ricorso n. 26760/22).

Questi i fatti. Un cittadino bulgaro lavorava come direttore finanziario in una società di telecomunicazioni nella Macedonia del Nord, mentre la moglie era una dipendente dell’Istituto di cultura bulgara presso l’ambasciata di Sofia nel Paese convenuto. Era stata aperta un’inchiesta nei confronti del ricorrente per abuso di ufficio ed evasione fiscale. L’uomo aveva comunicato alle autorità inquirenti di godere di un’immunità assoluta dall’azione penale grazie a un documento d’identità speciale emesso dalle autorità del suo Paese in base al diritto internazionale. In particolare, sosteneva di avere l’immunità in quanto marito di un familiare membro dell’ambasciata. L’uomo era stato condannato in contumacia e i tribunali nazionali non avevano dato seguito alla valutazione sull’immunità. La condanna era stata confermata in appello e in Cassazione e, quindi, l’imprenditore si è rivolto alla Corte europea dei diritti dell’uomo ritenendo che fosse stato violato l’articolo 6 della Convenzione.

Ricostruito il quadro normativo ai sensi del diritto internazionale e dopo aver analizzato la sentenza dell’11 aprile 2002 resa dalla Corte internazionale di giustizia nel caso Congo contro Belgio, la Corte ha precisato di avere competenza unicamente sul rispetto delle norme convenzionali e non, quindi, sull’accertamento dell’esistenza dell’immunità a vantaggio del ricorrente. Con riguardo all’articolo 6, Strasburgo sottolinea che i giudici interni erano tenuti a valutare l’esistenza dell’immunità che, in questo caso, sembrava non sussistente a causa dello svolgimento di attività imprenditoriali da parte del ricorrente in forza dell’articolo 42 della Convenzione di Vienna sulle relazioni diplomatiche del 1961. Tuttavia, l’uomo aveva contestato questa lettura dell’articolo 42, nonché il fatto che, a suo dire, i giudici interni non avessero effettivamente valutato e risposto alle sue obiezioni. La Corte europea, in effetti, ritiene che, non avendo affrontato l’argomento del ricorrente secondo cui la sua immunità non poteva essere revocata in ragione dello svolgimento della sua attività professionale e commerciale, i giudici nazionali abbiano violato l’articolo 6 della Convenzione. Per la Corte, infatti, i giudici nazionali non hanno fatto riferimento al venire meno dell’immunità del ricorrente e, inoltre, va considerato che l’immunità era stata invocata un anno prima rispetto alla scadenza della carta d’identità speciale e rispetto alla cessazione del rapporto di lavoro della moglie con l’Istituto di cultura presso l’Ambasciata bulgara. La circostanza che il processo decisionale sul punto si sia protratto per lungo tempo ha avuto come conseguenza che l’immunità era cessata per il mutamento della condizione di lavoro della moglie. Un ulteriore aspetto che porta la Corte a ritenere che è stato violato l’articolo 6 della Convenzione. 

Nessun commento

Aggiungi un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *