La kafala non può essere equiparata all’adozione perché manca il rapporto di filiazione e, quindi, il minore sottoposto a tutela non può incluso, in base alla direttiva 2004/38 sul diritto dei cittadini dell’Unione e dei loro familiari di circolare e di soggiornare liberamente nel territorio degli Stati membri, tra i discendenti diretti. Tuttavia, il minore può essere compreso nella nozione di “altro familiare” e, di conseguenza, gli Stati membri, tenuti a preservare l’unità della famiglia in senso ampio, devono agevolare l’ingresso e il soggiorno del minore. Lo ha stabilito la Corte di giustizia dell’Unione europea con la sentenza depositata il 26 marzo nella causa C-129/18 (C-129:18). La vicenda, che ha portato al rinvio pregiudiziale d’interpretazione, ha al centro una coppia di nazionalità francese, residente nel Regno Unito, che aveva avuto in affidamento in Algeria, con la formula della kafala, una minore di nazionalità algerina. Il marito era poi rientrato in patria, ma la domanda di ingresso della minore era stata respinta dall’ufficiale responsabile per il rilascio delle autorizzazioni all’ingresso. Il Tribunale di primo grado inglese aveva respinto il ricorso non considerando la minore come persona legalmente adottata o come familiare. La Corte di appello aveva condiviso questa posizione anche in base alla direttiva 2004/38. La Corte suprema, ha chiesto aiuto agli eurogiudici. Prima di tutto, la Corte Ue ha stabilito che la minore non può essere considerata come “discendente diretta” (nozione propria dell’ordinamento Ue) di un cittadino dell’Unione in base all’articolo 2, punto 2, lettera c) della direttiva perché la kafala in Algeria è temporanea e revocabile e coloro che hanno la tutela del minore non sono legati da un rapporto di filiazione o di adozione, quest’ultima vietata in Algeria. Così, considerando che la sola tutela legale permanente non rende il minore posto sotto tutela un discendente diretto (per adozione) del suo tutore va esclusa la possibilità di includere il minore tra i discendenti diretti. Detto questo, però, la Corte Ue ritiene che il minore possa essere considerato come “altro familiare” secondo la direttiva. Spetta così alle autorità nazionali accertare se si tratti di altro familiare in grado di avvalersi dell’articolo 3 della direttiva che impone agli Stati membri di agevolare l’ingresso e il soggiorno dei familiari. Nella valutazione, i giudici nazionali dovranno mettere in primo piano l’interesse superiore del minore affermato nella Convenzione di New York sui diritti del fanciullo del 1989 e la tutela del diritto al rispetto della vita privata e familiare garantita dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, in base all’articolo 52 paragrafo 3, ha lo stesso significato e la stessa portata dell’articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo come interpretata dalla Corte di Strasburgo.
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