La statua dell’atleta vittorioso attribuita a Lisippo deve tornare in Italia sia perché l’opera è stata rinvenuta da un peschereccio italiano e portata sull’imbarcazione e, quindi, sul territorio italiano, sia perché la statua appartiene “a quella continuità culturale che ha, fin dai primordi del suo sviluppo, legato la civiltà dapprima italica e poi romana alla esperienza culturale greca, di cui quella romana ben può dirsi la continuatrice”. Lo ha stabilito la Corte di Cassazione, terza sezione penale, con la sentenza n. 22 depositata il 2 gennaio 2019 (22:2019) con la quale è stato respinto il ricorso del rappresentante legale della J.P. Getty Trust che si opponeva all’ordinanza del Tribunale di Pesaro e, in particolare, al rientro in Italia della statua, e alla confisca dell’opera d’arte situata nel museo Getty di Malibu (California). La statua era stata agganciata in acqua, nel mare Adriatico, da alcuni pescatori. Il ritrovamento non era stato denunciato alle autorità nazionali e l’opera era poi stata ceduta a un imprenditore e antiquario. Era stata aperta un’inchiesta e le persone coinvolte erano state poi assolte. Nuove indagini e intanto la statua era arrivata nel museo Getty. Il pubblico ministero di Pesaro aveva chiesto l’archiviazione del reato per prescrizione (accolta) ma aveva anche richiesto al giudice per le indagini preliminari la confisca che, infine, era stata disposta. La vicenda è arrivata in Cassazione. Tra i diversi aspetti considerati nell’intricata vicenda ricostruita dalla Suprema Corte anche la questione relativa alla carenza di giurisdizione dell’autorità giudiziaria italiana, sostenuta dal ricorrente. La Cassazione ha dichiarato inammissibile tale motivo di ricorso perché sul punto si è formato il giudicato interno. E’ stato sostenuto, altresì, che è mancato un presupposto per predisporre la confisca ossia una sentenza di condanna. Tuttavia, per la Cassazione anche questa parte del ricorso va respinta perché la confisca di cui all’articolo 174, comma 3 del Dlgs n. 42 del 2004 contenente il Codice dei beni culturali non ha scopo repressivo e sanzionatorio, ma recuperatorio, “finalizzato ad assicurare il rispetto sostanziale della presuntiva natura pubblica del bene culturale e, pertanto, la tutela dell’interesse alla sua custodia, conservazione e, tendenziale, generale fruizione”, con la conseguenza che, per questo tipo di confisca, è salvaguardata “anche la compatibilità con i più recenti approdi giurisdizionali delle Corti sovranazionali”. Ed invero, la confisca, sul piano del diritto, era del tutto giustificata anche se il reato era stato dichiarato prescritto. La Cassazione, inoltre, ha precisato le differenze tra la confisca prevista dalla legislazione italiana in materia urbanistica in caso di lottizzazione abusiva e la confisca per la protezione di un bene culturale. Se, nel primo caso, la Corte europea dei diritti dell’uomo nella pronuncia GIEM del 28 giugno 2018 ha ritenuto contraria alla Convenzione l’automaticità della misura che “non consente al giudice di valutare quali siano gli strumenti più adatti alle circostanze specifiche del caso di specie e, più in generale, di bilanciare lo scopo legittimo soggiacente e i diritti degli interessati colpiti dalla sanzione”, nel caso di confisca con finalità recuperatorie “non ha senso parlare di gradualità della misura”. Ciò che conta, in quest’ultimo caso, è che il bene torni nel patrimonio dello Stato. Legittima, altresì, l’assunzione di informazioni testimoniali negli uffici consolari italiani di Los Angeles e New York in linea con la Convenzione di Vienna sulle relazioni consolari del 24 aprile 1963 poiché l’attività è stata svolta in presenza dell’autorità competente senza necessità di coinvolgere, tramite rogatoria internazionale, l’autorità giudiziaria statunitense.
Per quanto riguarda il motivo di ricorso fondato sulla non corretta applicazione di norme di diritto internazionale privato, la Corte ha respinto la tesi del ricorrente secondo il quale andava applicato il criterio di collegamento della lex rei sitae previsto dall’articolo 51 della legge n. 218/1995. Per la Suprema Corte, infatti, nel caso in esame è del tutto irrilevante la legittimità o meno del titolo di acquisto vantato dal Getty Museum perché ogni titolo sarebbe “destinato a recedere di fronte alla legittima adozione del provvedimento ablatorio autoritario emesso dall’autorità giudiziaria italiana”. A ciò si aggiunga – osserva la Cassazione – che le stesse disposizioni di diritto internazionale privato “prevedono che le regole dettate dai criteri di collegamento contenuti nella citata legge di riforma non siano applicabili ove le stesse siano tali da determinare l’applicazione di una normativa non nazionale che sia in contrasto con l’ordine pubblico, art. 16, ovvero che determini la subordinazione della disciplina nazionale che sia ritenuta di applicazione necessaria”.
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