Il rischio di un eccessivo carico di lavoro dei tribunali interni e le difficoltà di raccogliere prove e farle valere in tribunale giustificano i limiti all’esercizio della giurisdizione universale posti nell’ordinamento statale nel caso di crimini commessi a danno di propri cittadini all’estero. Di conseguenza, non vi è alcuna violazione dell’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che assicura il diritto di accesso alla giustizia e all’equo processo se uno Stato parte alla Convenzione fissa dei limiti all’azione da parte dei tribunali interni. È quanto ha stabilito la Corte di Strasburgo con la decisione adottata il 25 luglio nel caso Couso Permuy contro Spagna (ricorso n. 2327/20, CASE OF COUSO PERMUY v. SPAIN). Il ricorso è stato presentato dal fratello di un operatore televisivo che era stato ucciso a Baghdad nel 2003: durante l’invasione statunitense in Iraq, un carro armato statunitense aveva colpito l’Hotel Palestine, in cui si trovava la stampa internazionale. La Spagna, a seguito della denuncia del ricorrente e dei suoi familiari, aveva aperto un’indagine nei confronti di tre militari statunitensi, sulla base della legge sulla giurisdizione universale che, a quel tempo, permetteva l’esercizio di tale giurisdizione nel caso di crimini di guerra e crimini contro l’umanità senza limiti, ovunque detti crimini fossero stati commessi. Tuttavia, a seguito di una modifica legislativa che aveva limitato l’esercizio della giurisdizione dei giudici spagnoli nel caso di reati commessi nei confronti di cittadini all’estero solo se l’indagato fosse presente sul territorio spagnolo, il procedimento era stato chiuso. Malgrado i ricorsi dei familiari della vittima non era stato possibile, proprio in ragione dei limiti legislativi e dell’interpretazione già affermata dai giudici nazionali, continuare il procedimento anche se erano state raccolte diverse prove. In ogni caso, gli inquirenti avevano già ottenuto una risposta negativa circa la possibilità di aprire un procedimento negli Stati Uniti che consideravano l’evento come un’azione rientrante nella legittima difesa poiché l’intelligence riteneva che nell’hotel vi fosse una struttura militare. Ai familiari le autorità spagnole avevano attribuito 140.000 euro per i danni subiti dalla vedova e 180.000 come indennizzo. Il fratello della vittima riteneva che fosse stato violato il diritto di accesso alla giustizia e così aveva presentato un ricorso alla Corte europea che, come detto, lo ha respinto ritenendo che i limiti posti dal legislatore nazionale nell’esercizio dell’azione penale al di fuori del proprio territorio avessero una giustificazione nell’interesse pubblico al funzionamento della giustizia. Inoltre, la Corte ha accertato che gli inquirenti spagnoli avevano svolto indagini adeguate e, quindi, la mancata prosecuzione del procedimento era unicamente legata alla nuova normativa interna. Strasburgo precisa che la circostanza che uno Stato ponga dei limiti all’esercizio della giurisdizione universale apponendo talune restrizioni nel diritto di accesso a un tribunale rientra nel margine di apprezzamento degli Stati che è collegato anche al quadro del diritto internazionale in relazione all’ambito della giurisdizione universale. Tra gli Stati – precisa la Corte – c’è consenso sull’esercizio della giurisdizione universale da parte dei tribunali nazionali nel caso di richiesta di riparazione per crimini di guerra o altri crimini internazionali anche quando i crimini sono commessi al di fuori dei confini geografici dello Stato, ma non è fissato un divieto di porre limiti all’esercizio di tale giurisdizione. Sul punto la Corte europea ha rilevato che Spagna, Iraq e Stati Uniti sono parte alla Quarta Convenzione di Ginevra del 1949 i cui articoli 146 e 147 impongono agli Stati parte di considerare reati alcuni atti come i crimini di guerra e che l’articolo 146, con riguardo alle infrazioni gravi, stabilisce il principio aut dedere aut iudicare e questo almeno per gli individui presenti sul territorio nazionale. Tale Convenzione – prosegue Strasburgo – stabilisce un modello imperativo di giurisdizione universale, che impone a ogni Stato firmatario l’obbligo di individuare i criminali di guerra allorquando si trovino sul proprio territorio e di processarli dinanzi ai propri tribunali, indipendentemente dal luogo in cui sono avvenuti i fatti e dalla nazionalità degli imputati, ma senza però estendere l’obbligo alla ricerca dei criminali al di fuori del proprio territorio o di processarli malgrado non si trovino all’interno dello Stato. Pertanto, né dal diritto internazionale, né dalla Convenzione deriva un obbligo per gli Stati di applicare la giurisdizione civile universale in ogni caso. Respinto così il ricorso.
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